di Michele Scolari
Fotografie di Paolo Panni
Non sono molto note, in città, le vicende che riguardarono le condanne a morte eseguite tra medioevo ed età moderna, compresa una storia, dai toni macabri e misteriosi, legata proprio alle esecuzioni capitali nella nostra città. Stando ad alcune fonti storiche locali, tra le quali Agostino Cavalcabò, nella strettoia compresa tra il Battistero e l’edificio sopra il Camposanto dei Canonici (detto anche Scarsella o Cappella di San Giovanni) vi era una struttura nella quale si dice venissero rinchiusi i condannati a morte: secondo alcuni era la parte ora mancante che annetteva la Scarsella al Battistero (demolita nel ‘500), mentre secondo altri si trattava di una gabbia che comprendeva la strettoia sopra detta e lo spazio immediatamente antistante questa dalla parte di piazza Zaccaria, quando il collegamento era già stato demolito (del punto in cui la capella si agganciava al Battistero rimane una traccia sul lato orientale dell’ottagono, prospiciente l’edificio sopra il cimitero dei Canonici: ancor oggi vi si nota un arco in pietra internato nel muro e sormontato dai segni di due spioventi). In ogni caso qui si dice si trovassero i condannati a morte, in attesa di essere trasferiti nella cappella di S. Gerolamo dove passavano in preghiera l’ultima notte prima dell’esecuzione (segnalata dal lugubre suono della campana del palazzo Comunale la sera precedente, all’una di notte e all’alba). La parte che univa il Battistero all’attuale Cappella venne demolita verso la metà del XVI secolo (il Puerari spiega che se ne decurtarono ben sei braccia «per liberar il battistero d’intorno»); e nessuna traccia rimane di un’eventuale gabbia posizionata successivamente. Ma una testimonianza sembra comunque essere rimasta: essa si trova alla base dei lati nord e nord-est del Battistero (quindi dalla parte di Piazza Zaccaria) dove, per intendersi, sono incisi anche le misure del mattone e della tegola cremonese.
Osservando i mattoni su quel lato dell’ottagono, vi si notano incise delle scritte: si dice che siano quelle lasciate nei secoli che venivano lasciati lì negli ultimi giorni prima del patibolo. In ogni caso, se il passaggio fu liberato nel ‘500 è probabile che già la camera che doveva esistere quando il battistero era ancora unito alla scarsella poteva aver adempiuto a quella funzione: alcune delle date sul muro riportano le date “1400” e addirittura “1300”. Alcune sono poste a circa 2,5 metri di altezza, lasciando intuire la presenza di un soppalco. Tra le date ancora leggibili (altre sono irrimediabilmente sbiadite) vi sono semplici iniziali e firme per esteso assieme a numerose date (in una si legge chiaramente «1794», in un’altra «morto 17 agosto», in altre ancora le date arrivano addirittura al 1300 e più indietro); contemporaneamente, vi si riconoscono anche alcune pesanti invettive alle autorità cittadine laiche e religiose: «cristalli di parole, l’ultima bestemmia detta», per dirla con La ballata degli impiccati di Fabrizio de Andrè.
Poco si sa comunque su questa ipotetica struttura, giacché fra il XIII e il XIX secolo più fonti posizionano le prigioni dentro palazzo Comunale, nell’ala compresa tra le attuali piazza Pace, via Lombardini e piazza Stradivari (detta in passato appunto “La Guardiola”, mentre al piano superiore erano l’alloggio del Giudice e il Tribunale e, a fianco, la Torre dei Condannati – quella che attualmente dà su piazza Pace). Sorvegliate da un Capitano e dai suoi uomini, assieme ad alcuni “Sbirri”, le prigioni contavano diversi locali, descritti dai documenti come angusti, bui e maleodoranti (tramanda Agostino Cavalcabò come spesso si tardasse a cambiare la paglia della lettiera, costringendo i condannati a vivere tra fetidi miasmi). Sul lato di piazza Stradivari (dove ora si trovano gli uffici di Spazio Comune) c’era l’ingresso, sormontato da un porticato con una trave alla quale venivano appesi i detenuti durante le torture. Sino al XVI secolo circa, le esecuzioni si tenevano davanti alla chiesa di S. Erasmo (ora non più esistente) nella contrada che ancor’oggi porta quel nome, situata in fondo a via Palio dell’Oca. Per i condannati cremonesi il “miglio verde” era ben più lungo di quello dell’omonimo film. Essi raggiungevano la forca in una pittoresca processione che partiva dalla prigione (ed alla quale prendevano parte, oltre agli sbirri, anche il podestà ed altre autorità), passava dalla chiesa di S. Girolamo (via Sicardo), e si snodava poi attraverso il “Vicolo degli Impiccati” (detto Stricta de Apichatis, continuazione ora soppressa del vicolo S. Girolamo verso via Platina – segnata in rosso nella pianta a fianco), le attuali via XI Febbraio, via Manini e via S. Erasmo, sino al piazzetta dinanzi alla chiesa. Dal ‘600 circa il patibolo risulta invece collocato nell’attuale piazza Stradivari, davanti alla Torre del Capitano (ancora visibile, inglobata nell’edificio dell’ex Casa di Bianco). Lo spostamento del capestro si intuisce anche dal “cambio di residenza” del Boia, situata sino alla metà del ‘500 in via Palio dell’Oca (che si chiamava appunto “Contrada del Carnefice”), e trasferito nel 1560 circa in alcuni locali sopra la Sala del Consiglio di Palazzo Comunale.
Alla Confraternita della Beata Vergine della Misericordia e di San Giovanni Decollato, fondata nel 1436 e con sede nella chiesa di S. Girolamo, era affidata l’assistenza ai condannati, incluso l’accompagnamento al patibolo (in veste bianca e a volto coperto) e la sepoltura, che avveniva nel Sepolcro detto “dei Francesi”. Gli impiccati invece avevano una sepoltura “speciale”, dapprima nel cortiletto ai piedi del Torrazzo (detto appunto il Campo Santo) e, una volta pieno verso la seconda metà del ‘600, nella cappella della chiesa di S. Girolamo (il luogo è indicato da una lastra marmorea ancor oggi visibile e per questo la chiesa veniva detta anche “degli impiccati”).
Annota Agostino Cavalcabò che un elenco completo dei giustiziati a Cremona non è stato tramandato, ma è certo che le esecuzioni erano frequenti (l’ultima registrata nelle delibere è datata il 30 novembre del 1827 e venne eseguita sugli spalti delle mura di via Pedone) e, in molti casi, anche alquanto crudeli. Dai documenti risulta come ancora tra ‘500 e ‘600 i condannati, oltre che impiccati, venissero anche decapitati, bruciati («arsi al focho»), fatti a pezzi («tenayati et squartati») pare iniziando dai piedi perché soffrissero di più, o giustiziati tramite fratture multiple causate da una ruota («arrotati»). Per lo più si trattava di assassini o banditi. Ma è riportato qualche caso singolare come quello di tali Domenico C. e Andrea D., mandati a morte perché sorpresi con una donna vestita da uomo. Severe erano anche le pene che si rischiavano per reati “minori”: dalla documentazione d’archivio si viene a sapere come nel 1505 venisse «cavato un ogio» ad un tizio colpevole di furto; mentre per calunnie pubbliche di una certa gravità era «schiapata (tagliata) la lengua con una forbesina».
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