9 giugno 2014

Il misterioso Guardiano del Torrazzo di Cremona


di Michele Scolari




Secondo una leggenda medievale riportata da Jacopo D’Acqui ma risalente alla distruzione di Cremona da parte del re longobardo Agilulfo, un leone sarebbe seppellito sotto il campanile romanico del Duomo di Cremona.

Quanti sono i leoni posti a proteggere la cattedrale di Cremona? Se contassimo soltanto quelli stilofori, la risposta sarebbe sei: due a sostegno del protiro dell’ingresso principale, due al protiro del portale settentrionale del transetto (scolpiti dal ticinese Giambonino da Bissone forse assieme a Guglielmo da Campione) e due a quello del battistero. Ma se cominciassimo ad includere anche i quattro più piccoli che sorreggono le quattro colonnine della loggia sopra il protiro, il numero salirebbe a dieci. Ed aumenterebbe progressivamente a undici aggiungendo quello alato (simboleggiante San Marco) posto sul capitello destro del portale; a dodici, con quello scolpito sotto i cavalli di luglio (nei fregi dei mesi sopra l’arco gotico del protiro); e, infine, a tredici, con quello posto sul capitello vegetale ai piedi della facciata (volendo si potrebbe conteggiare anche quello non scultoreo ma dipinto, che troneggia nel circolo zodiacale dell’orologio astronomico di Giovanni e Francesco Divizioli). Eppure, alcuni sostengono che ve ne sarebbe ancora uno. Secondo un’antica leggenda, testimoniata nel XIV secolo ma risalente all’epoca dell’invasione longobarda, nelle fondamenta del Torrazzo giacerebbe sepolto il quattordicesimo leone. Quest’ultimo però non marmoreo: si tratterebbe di un esemplare in carne ed ossa.


La narrazione poetica della vicenda è contenuta in un passo della Cronica Imaginis Mundi, scritta tra il 1300 e il 1334 dal cronista Jacopo d’Acqui (segnalato dapprima dal professor Giuseppe Pontiroli e successivamente dall’architetto Maria Teresa Saracino, della Soprintendenza di Brescia, Cremona e Mantova). Era l’anno 603 e le armate del re longobardo Agilulfo, penetrate un trentennio prima in Pianura Padana dal Friuli sotto la guida di Alboino, giunsero alle porte di Cremona, la quale, rimasta fedele all’Impero Romano d’Oriente, rappresentava l’avamposto più settentrionale dell’Esarcato di Ravenna. A parte le motivazioni politiche (la fedeltà di Cremona a Roma), sembra che l’ira di Agilulfo verso la città fosse alimentata anche dal fatto che i bizantini avevano rapito sua figlia e suo genero, portandoli proprio a Cremona.

Per questo, racconta Jacopo, «nel mese di luglio Agilulfo pose un terribile assedio a Cremona e la prese alle XII calende di Settembre e la rase al suolo, con l’ordinanza che nessuno dovesse abitarci e chi avesse voluto comunque risiedervi sarebbe stato decapitato». I pochi cittadini superstiti ad un simile scempio vennero costretti ad abbandonare la città. Sicchè, prosegue Jacopo, «per lungo tempo Cremona rimase disabitata – gli abitanti avevano fondato borghi e villaggi nei boschi verso Lodi e sugli isolotti del Po, ndr - e divenne deserta – fonti locali dicono per quasi vent’anni, ndr . – Capitò dopo molto tempo dopo che un certo gran principe Gallico passasse di lì in buona comitiva e che si accampasse per caso nel luogo dove c’era stata Cremona. Ed ecco che un leone si avvicinò zoppicando e mostrò la zampa, lesa da una spina al principe, il quale, per nulla spaventato, curò la zampa del leone che subito sparì e, dopo un’ora, tornò con un capriolo in bocca deponendolo ai piedi del principe. Quando questi ripartì, il leone lo seguì domesticamente fino a Roma, dove il principe, stando col suo leone, apprese che il luogo in Lombardia dove aveva incontrato il Leone era la città di Cremona. Dopo che il principe fu ripartito da Roma, il leone che lo seguiva venne a mancare. Allora il principe portò con sé le sue ossa in Francia e, quando tornò in Lombardia, a Cremona, riedificò la città; e per prima cosa pose le ossa del leone nelle fondamenta del muro dove c’è il Torrazzo ("et in fundamento muri ubi est torratium ossa leonis primo posuit"). E questa è la causa per cui in cima al Torrazzo è posto un leone, e dev’essere con la zampa alzata, in ricordo del primo vero leone che sollevò verso il principe la zampa ferita dalla spina».

La leggenda di un principe gallico che seppellì sotto il torrazzo un leone curato da lui tra le rovine di Cremona riaffiora nel 1515. In un passo degli AnnalesDomenico Bordigallo (verosimilmente basandosi sul precedente passo di Jacopo o di qualche fonte perduta), decantando la bellezza e la maestosità del Torrazzo, riporta la stessa storia con qualche particolare in più sul leone bronzeo posizionato sulla guglia: «Al di sopra dei merli, un certo principe Gallo, per un suo voto in cammino alla volta della città di Roma, lo decorò (il Torrazzo,ndr) moltissimo con la torre e con la pigna e con la ghirlanda. E seppellì nel piede della Torre (“in pede turris sepelivit”) il leone suo familiare, venuto a morire. In memoria di questo, eresse sopra le mire anche un leone in bronzo, rivolto a Parma. Dal metallo di questo leone, dopo lunghi tempi, secondo le cronache fu fabbricato un gran tintinnambulo, ossia la campana grossa».

E, ancora nel 1588, Ludovico Cavitelli, in un passo dei suoi Annales (anch’egli riprendendo da Jacopo o da qualche fonte comune), parlando dei leoni stilofori dei due protiri, spiega che vennero scolpiti «per conservare la memoria del leone un tempo prostrato ai piedi dell’Eroe Gallico e delle sue ossa poi seppellite nelle fondamenta di questa Torre, quando fu riedificata la stessa città, dopo che fu distrutta da Agilulfo Longobardo, per opera dell’Eroe e per indicare che la città stessa è posta sotto l’astro del Leone». La narrazione sembra ripresa da Jacopo d’Acqui (o da qualche fonte comune). Anche in questo caso, come nella Cronica di Jacopo, l’eroe gallico non ha nome, ricostruì Cremona dopo la distruzione longobarda di Agilulfo e il leone è prostrato ai suoi piedi. Però non si dice il perché. «E ciò – ipotizza la Saracino – induce a pensare che ai tempi del Cavitelli la leggenda del leone fosse così ben conosciuta da non abbisognare di essere ripresa per intero».

Ora, in questa leggenda vi sono senz’altro alcuni elementi da rifiutare. A cominciare dall’attribuzione all’ignoto eroe gallico del merito della ricostruzione di Cremona dopo l’assedio longobardo di Agilulfo. Come riporta Pellegrino Merula ne Il santuario di Cremona (1627), l’impulso alla riedificazione e ripopolazione della città partì probabilmente dalla moglie di Agilulfo, la regina Teodolinda (in precedenza moglie del re longobardo Autari). Alla morte del marito, la regina ordinò la riedificazione di Cremona a partire dal quartiere San Michele (santo protettore dei Longobardi), con la edificazione della chiesa e di un fortilizio (verosimilmente sui resti di una fortificazione bizantina). Anche se il Merula non indica la fonte, gli storici sono piuttosto concordi nell’accogliere la notizia come veritiera. Altro particolare da respingere è il fatto che un principe Gallico abbia eretto la pigna e la Ghirlandina del Torrazzo, certamente posteriori al 1284. Ma da tale leggenda, secondo la Saracino, si potrebbe tuttavia ipotizzare una retrocessione della data d’inizio del cantiere della Torre (riconosciuta al 1284). Viene indicato come luogo di sepoltura del leone le fondamenta del Torrazzo. Quindi, ipotizza la Saracino, o quegli storici dovevano avere scarso senso critico, oppure per loro era scontato che le fondamenta della torre fossero antecedenti al 1284. Inoltre, la notizia della presenza di un leone bronzeo sulla guglia del Torrazzo in un periodo più o meno coevo a quando Jacopo scriveva, si trova nella Cremona Fedelissima di Antonio Campi (1585), dove, alle pagine 62 e 63 si legge: «1350 […] nel mese di maggio fu da cremonesi posto un leone di bronzo dorato nella cima del Torraccio». Si tratta di un leone diverso ed antecedente a quello di San Marco che i veneziani, impadronitisi di Cremona, fecero apporre sulla guglia nel 1506 (e distrutto da un fulmine nello stesso anno). 


Lo stemma della 
Casata di Svevia,
alla quale apparteneva 
Federico II Hohenstaufen
E tre anni dopo, nei già citati Annales (1588), Cavitelli riporta che i Guelfi cremonesi abbellirono la Cattedrale «rendendola più ornata, avendo fuso il leone di ottone posto su questa torre ed avendo di esso fatto una palla posta sopra il pinnacolo della stessa torre» (Bordigallo riportava invece che se ne ottenne non una palla ma la campana grossa del Torrazzo). Dunque, prima del leone veneziano del XVI secolo, in cima al Torrazzo c’era stato un altro leone che vi rimase sino al 1284, anno della fusione indicato da Cavitelli. Perché vi fosse un leone sul Torrazzo nel XIII secolo è cosa ardua da ipotizzare. Ma nel passo di Cavitelli c’è il riferimento alla Costellazione del Leone, sotto la quale era posta Cremona. Il Leone doveva dunque indicare il simbolo della ricostruzione della città dopo l’assedio longobardo? Ma in tal caso perché, chiede giustamente la Saracino, ricordare soltanto il nome del distruttore e non anche di colui che la ricostruì? A meno ovviamente di non voler considerare un’altra spiegazione (che lascerebbe da parte, almeno di primo acchito, la leggenda del principe e del leone): ossia l’ipotesi che il leone bronzeo posto sulla guglia del Torrazzo prima del 1284 avesse in qualche modo a che fare con l’Imperatore Federico II di Svevia, che effettivamente elesse Cremona capitale del Nord Italia “pro tempore” e propria corte dal 1220 al 1250, quando la nostra città era tra le più potenti della Pianura Padana e lo aveva accolto salvandogli la vita (leggi l’articolo). Lo stemma della Casata di Svevia era infatti “d’oro ai tre leoni neri passanti disposti in palo”, anche se il ramo di Sicilia adottò poi una versione modificata dell’aquila imperiale, sostituendo il campo d’oro con uno d’argento (d’argento all’aquila di nero imbeccata, lampassata e membrata di rosso). Ad una simile ipotesi ben si attaglierebbe anche la fusione del leone bronzeo sul Torrazzo da parte dei Guelfi cremonesi, verosimilmente per cancellare definitivamente i lasciti dei loro nemici Ghibellini, i quali, sotto la guida di Oberto Pallavicino, erano anche appoggiati dall’“eretico” e “filoislamico” Federico II.

Il leone posto sul capitello 
vegetale ai piedi 
della facciata della Cattedrale
Tornando alla leggenda, sappiamo che le notizie di Jacopo d’Acqui riguardo ai Longobardi sono ricche e sostanzialmente rispondenti alla realtà storica. Perciò, prosegue la Saracino, «potrebbe essere in qualche modo degno di fede l’episodio del leone, per il quale Jacopo potrebbe aver attinto da altre fonti attendibili, oltre a Paolo Diacono». Per concludere dunque, la leggenda dell’ignoto principe Gallico e del leone induce a due ipotesi: o è stata creata per spiegare la presenza del leone bronzeo (duecentesco secondo Cavitellie Bordigallo, trecentesco secondo Campi) sulla guglia del Torrazzo; oppure si è tramandata oralmente una vicenda che in qualche modo rispondeva a verità e che a noi è giunta sotto una forma di difficile interpretazione. Non è verificata comunque l’ipotesi che i leoni marmorei del Duomo fossero stati scolpiti in memoria del leone seppellito sotto la Torre. La data riconosciuta in cui vennero scolpiti è quella riportata dal Cavitelli (il 1283-84) ma gli studiosi sono concordi nell’attribuirne almeno due allo scultore ticinese Giambonino da Bissone, senza specificare se vennero scolpiti per supplire la fusione del leone posto sulla guglia e per ricordare il leone sepolto sotto il Torrazzo.

Uno dei due leoni stilofori 
che sorreggono il protiro 
della Cattedrale
In generale, l’iconografia leonina nell’arte è assai antica e vi si sommarono e si stratificarono significati diversi e contributi di culture tra loro differenti e lontane (tanto da non poter essere ridotto entro schemi interpretativi rigidi): dai leoni “solari” posti come custodi sulla soglia degli antichi templi egizi, sino ai leoni funerari dell’arte romana (sia custodi che divoratori di vita). E ancora nell’arte paleocristiana (e successivamente romanica) il leone (simbolo complesso di forza, coraggio e giustizia) è anche un “custode” con evidente funzione apotropaica ed assume un aspetto terribile per dissuadere le potenze del male e per esprimere il tremendum che è nel sacro. Con questo significato (e non come lasciti del dominio veneziano, come invece ancora raccontano certe guide turistiche disinformate) numerosi leoni marmorei troneggiano in molte basiliche, palazzi e chiese romaniche della Pianura Padana e dell’Italia meridionale, inclusa Cremona: dove al cospetto imponente della Cattedrale, con i suoi tredici leoni (o forse quattordici, con quello che forse ancora riposa sotto la torre) a guardia delle porte e del Torrazzo, il male era ammonito a non varcare la soglia di quel monumentale luogo sacro e del campanile che vi sta a sentinella. Quasi a dire, nel senso cristiano del motto, hic sunt leones.

L’ANFITEATRO DI CREMONA ROMANA

Un mosaico rappresentante
la scena di una “venatio”
Leggendo l’avvincente leggenda del principe e del leone a Cremona, non passa inosservata, destando qualche dubbio, la presenza di un simile animale a Cremona all’inizio dell’Alto Medioevo. Non è mancato chi ha sottolineato che i cremonesi dell’Alto Medioevo di leoni non dovevano averne mai visti (osservando come i leoni marmorei della Cattedrale somiglino nel corpo più al bove padano che al re della savana). Ma non si può escludere in assoluto la presenza di animali selvaggi ed esotici a Cremona (sia pure in modo non certo massiccio come nei colossali anfiteatri della capitale, primo fra tutti il Colosseo). A tal proposito non andrebbero trascurati almeno due circostanze. La prima è la notizia trasmessa da Publio Cornelio Tacito nelle Historiae, relativa alla presenza nella nostra città, in epoca romana, di un anfiteatro in legno fatto erigere da Cecina su ordine di Vitellio nel 69 d.C. dai legionari della XIII Legione Gemina. Secondariamente, altrettanto utile per la leggenda del leone e del principe, è altresì curioso notare come il simbolo della Legio Tertiadecima Geminafosse proprio il leone, sempre presente sui suoi vessilli sin dalla formazione del corpo, reclutato da Giulio Cesare nel 57 a.C. (in vista della campagna contro le popolazioni della Gallia Belgica). Riguardo la natura degli spettacoli tenuti nell’arena di Cremona, Tacito riporta solamente di munera, ossia combattimenti tra gladiatori e gladiatori, il primo dei quali allestito proprio nel 69 d.C. da Cecina per Vitellio.


Il simbolo leonino sul vessillo
della Legione XIII Gemina
Ma non si può escludere che in seguito nella colonia cremonese avesse preso piede anche la prassi delle venationes (gli spettacoli tra gladiatori e belve), con la conseguente necessità di tenere in città numerose fiere, tra cui leoni (i quali, come del resto anche le altre belve esotiche destinate alle arene, erano in molti casi addestrati da domatori di professione). Ora, ipotizzando che la leggenda del leone e del principe abbia un fondo di verità, sarebbe suggestivo collegare la presenza del leone tra le rovine di Cremona con l’anfiteatro romano della città e con l’eventuale presenza in esso della tradizione delle venationes. Dal racconto di Jacopo viene da pensare che il leone fosse addestrato, o comunque in qualche modo avvezzo alla vicinanza con l’uomo. E inoltre non sarebbe eventualmente stato il primo caso in cui, durante gli assalti e i saccheggi dei barbari alle città romane, le belve in cattività fossero fuoriuscite dalle gabbie nel trambusto generale, restando poi ad aggirarsi tra le rovine a distruzione ultimata. Ma purtroppo non vi sono elementi per ipotizzare la presenza di eventuali belve esotiche nell’anfiteatro di Cremona sino all’assedio longobardo (nel 603 d.C.), né se in tale occasione, nel terribile parapiglia della distruzione (descritto dallo storico friulano Paolo Diacono), gli animali avessero avuto la possibilità di fuggire dalle gabbie, restando poi a vagare tra le macerie. Così come poco si sa comunque sull’anfiteatro cremonese, eretto dai legionari della XIII Gemina in soli quaranta giorni (particolare che fa supporre appunto la sua natura lignea). Né è dato di sapere se questa struttura sopravvisse effettivamente sino al tempo dell’invasione longobarda o se invece cadde in disuso con l’avvento della diocesi cristiana tra IV e V secolo (perché teatri e anfiteatri erano particolarmente invisi alle autorità religiose del nuovo culto).



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