Nella sala della
Biblioteca comunale “Monica Porcari” di Polesine Parmense hanno
preso il via gli “Incontri Misteriosi” organizzati da Emilia
Misteriosa e dal Comune di Polesine Parmense. Una bella opportunità,
per il nostro gruppo, come occasione di promozione, valorizzazione
della nostra attività e scambio di esperienze. Per questo dobbiamo
ringraziare il sindaco di Polesine Parmense Sabrina Fedeli, che in
prima persona ha voluto questa iniziativa. Grazie anche
all’Amministrazione comunale, ai responsabili della Biblioteca ed a
tutti gli intervenuti.
La prima serata,
introdotta dal saluto del sindaco Sabrina Fedeli e dalla
presentazione del nostro gruppo da parte del fondatore del nostro
Alessandro Appiani, ha visto Stefano Panizza, membro di Emilia
Misteriosa e responsabile del blog misteridiparma.myblog.it ,
intervenire sul tema “Si può credere ad un testimone? Quando
l’Uomo vede l’Incredibile”.
Di seguito la
relazione di Stefano Panizza
In altre parole che significato dare ad una testimonianza?
L’argomento riveste una importante rilevanza in campo giudiziario dove, spesso, la prova testimoniale assume una valenza decisiva nelle sentenze processuali; l’assoluzione o la condanna di in imputato dipendono infatti, in tantissimi casi, da quanto affermato da persone che dichiarano di aver assistito al fatto criminoso.
Ma anche in altri settori il problema si pone in maniera considerevole.
Si potrebbe ricordare, ad esempio, che in campo ufologico moltissima della documentazione raccolta a comprova del fenomeno stesso si basa sulla semplice testimonianza oculare di una o più persone.
Gli archivi sono, infatti, ricchi di una casistica che si fonda sull’osservazione e successiva dichiarazione, a volte precisa, a volte nebulosa, di un qualcosa che si sarebbe manifestato.
Ecco che capire quanto ci sia di vero in una affermazione diventa un problema che necessita di una soluzione se vogliamo, davvero, indagare e comprendere un determinato fatto.
In ogni caso la testimonianza, anche in presenza di evidenze fisiche e strumentali, è una componente fondamentale nell’interpretare, valutare e soppesare adeguatamente il valore di un episodio.
Per prima cosa bisogna chiedersi che cosa spinga il testimone a parlare: vuole ricevere un conforto, semplicemente capire cosa gli sia accaduto oppure lo fa perché forzato dalle circostanze, senza una reale esigenza di sottoporsi ad un esame metodico perché, magari, già soddisfatto dei propri convincimenti?
Oppure lo fa per denaro, fama o, ancor peggio, per destabilizzare ed inquinare la ricerca seria su di un fenomeno?
Capirne il fine può dare un senso ed un valore diverso ad una dichiarazione, in un rispetto che deve, comunque, essere sempre presente verso i testimoni anche perché, nella grande maggioranza dei casi, sono persone adulte, mature e socialmente rispettabili, con un sano timore di esporsi pubblicamente per non cadere nel ridicolo e mettere a repentaglio la propria pace e tranquillità famigliare.
Vediamo ora di razionalizzare e schematizzare il problema per rispondere concretamente alle domande iniziali.
Da una parte abbiamo il “fatto”, dall’altro il “racconto”, con in mezzo la “memoria” che è strettamente correlata ad entrambi, implementandosi con il primo e creando il secondo.
Di seguito analizzeremo questi tre momenti, fondamentali per avere una ricostruzione la più realistica possibile di un qualsivoglia episodio.
E da quanto verrà esposto ci renderemo conto di quante siano le variabili che possono finire per influenzare una deposizione testimoniale.
Esse possono essere legate a fattori fisici, mentali, psicologici, sociali, culturali, ambientali e religiosi.
Le sorprese, dunque, non mancheranno.
Partiamo dalla memoria.
Come la potremmo definire?
Secondo la definizione comune è quel processo cerebrale che permette l’archiviazione delle informazioni acquisite.
Essa si concretizza nella realizzazione di una rete di collegamento, intesa come una serie di migliaia di connessioni dette sinapsi, fra i neuroni, le cellule del cervello.
Acquisire memoria significa, in altre parole, modulare in modi sempre diversi tali sinapsi.
Tale processo, che consente l’organizzazione di strutture sempre più complesse, avviene tramite una serie di microimpulsi di cariche elettriche. Queste modificazioni devono, però, essere stabilizzate e consolidate, cosa che avviene tramite la sintesi di proteine, altrimenti la loro forza decresce rapidamente ed il ricordo svanisce.
Le sinapsi, poi, sono localizzate per la maggior parte nella neocorteccia, la regione cerebrale evolutivamente più recente.
Ma il cervello da dove attinge le informazioni sulle quali, poi, “lavorare”?
Ovviamente e sostanzialmente, anche se non esclusivamente, da nostri occhi.
Si potrebbe dire, però, che “...si “guarda” con gli occhi ma si “vede “ con il cervello...” perché è quest’ultimo che decodifica i segnali che provengono dall’ambiente esterno tramite il sistema visivo, che comprende i bulbi oculari e i nervi ottici.
Esistono, inoltre, due tipi di memoria: una breve della durata di pochi secondi o qualche minuto, con modificazioni transitorie dell’attività sinaptica, ed una a lungo termine, che può preservarsi per ore o per tutta la vita.
Il cervello, poi, non raggruppa le immagini, i suoni e gli odori, cioè tutto ciò che fa parte di un ricordo, in un unico punto, ma distribuisce la memoria in aree differenti, da risvegliare e recuperare all’occorrenza.
Questo per permettere una maggiore flessibilità nel recuperare una reminescenza.
Infatti le memorie sono per la maggior parte inframmischiate, nel senso che un “evento” è associato a tanti ricordi differenti che a loro volta coinvolgono altri ricordi memorizzati in tempi e luoghi diversi.
Non esiste, dunque, un impacchettamento ed immagazzinamento rigido e definito.
Al contrario le reti neuronali sono annidiate l’una dentro l’altra, cioè sovrapposte ed interconnesse, soggette ad espansione e ricombinazione.
Nulla rimane statico, senza considerare la loro naturale vulnerabilità dovuta all’invecchiamento.
Riassumendo, a questo punto, appare evidente che la chiave per capire se esiste una discrepanza fra quanto accaduto e quanto raccontato si basa sul funzionamento della memoria.
Ed il suo studio dimostra che non esiste, o è rarissima, la testimonianza ideale dove l’individuo racconta tutto quanto ha osservato e fedelmente.
Infatti, spesso, presupponendo come ipotesi iniziale una condizione di buona fede, il ricordo è parziale o distorto.
Per tutta una serie di motivi, che poi analizzeremo, le persone tendono, con il tempo, a modificare il ricordo, ad aggiungere fatti nuovi ed a dimenticarne altri oppure a creare fatti mai realmente vissuti, pur nella convinzione di dire la verità.
In altre parole la testimonianza erronea è la regola ma si mente non sapendo di mentire.
Una statistica, ad esempio, ha dimostrato come un testimone, posto di fronte ad una lista di possibili colpevoli, abbia, per ben il 76% delle volte, errato completamente l’identificazione del reo, avendo indicato, in sua vece, un agente di polizia schierato appositamente nella lista per testare l’attendibilità dell’identificatore.
Ma anche se la testimonianza è resa quando l’accaduto è recente, contrariamente all’opinione corrente, vi sono delle caratteristiche che influiscono pesantemente sulla qualità di una deposizione.
Pure l’età del testimone è importante.
Ad esempio i bambini hanno la tendenza ad avere cattivi ricordi perché il meccanismo della memoria è ancora meno perfezionato che negli adulti, ma è altrettanto vero che una persona anziana ha, spesso, cattiva memoria.
Questo perché con l’invecchiamento la plasticità delle sinapsi diminuisce e le sue modificazioni sono transitorie, senza considerare altre malattie di tipo degenerativo.
Poi è importante la consapevolezza del soggetto al momento dell’episodio.
Stava dormendo oppure era sveglio? Ed in questo caso il suo grado di attenzione quale era?
Il soggetto si aspettava, in un qualche modo, quanto poi sarebbe accaduto o è stata una sorta di fulmine a ciel sereno?
E’ evidente che un qualcosa di inatteso rende meno affidabile il ricordo.
Il testimone, inoltre, cosa stava facendo in quel momento? Era molto coinvolto da le faccende che lo occupavano?
Quale è la sua capacità di interpretazione degli stimoli che riceve? E, questa, varia molto da individuo ad individuo, non dimenticando che nella mente si memorizza quanto interpretato, giusto o sbagliato che sia, in quel momento.
Non tutti, poi, hanno lo stesso interesse verso quanto accade e questo influisce sul desiderio di ricordare, sul cercare di essere precisi ed, inevitabilmente, sulla qualità del ricordo stesso.
Inoltre bisogna capire a quale scopo, magari inconscio, è votato il testimone, cioè la sua intenzione. E’ chiaro, ad esempio, che uno “scettico” presenterà l’episodio in modo da indirizzare l’investigatore verso conclusioni di tipo convenzionale.
La nostra memoria, poi, codifica le informazioni in base a degli schemi predefiniti.
C’è un esempio illuminante di come l’esperienza ed il contesto culturale influiscano sulla interpretazione di quanto si vede.
Anni fa venne mostrato il disegno di un UFO, con il relativo equipaggio extraterrestre, ad un gruppo di indigeni del Gabon.
Ebbene, contrariamente alle aspettative, vennero interpretati come ispettori minerari.
In altre parole tutti noi abbiamo degli stereotipi, che dipendono dalla nostra cultura e dalla nostra formazione, in basi ai quali ad una determinata cosa vengono associate delle caratteristiche ben precise, anche se, magari, non reali. Ed in base a quelli noi interpretiamo quanto vediamo. Lo si guarda, dunque, con occhio personale e soggettivo, specialmente se quanto osservato non è ben definito.
A volte, addirittura, gli stereotipi stessi, oppure il vissuto, possono completare il ricordo medesimo, ovviamente con dati non reali.
Cioè si aggiungono informazioni che solitamente accompagnano, nella vita quotidiana, quanto osservato o udito oggetto della testimonianza.
Senza dimenticare che, se quanto vediamo non assomiglia a nulla che faccia parte del nostro bagaglio di esperienze, noi non riusciamo a comprenderlo e, di conseguenza, a ricordarlo correttamente. La percezione, cioè, può essere corretta, nel senso che vediamo quello che è realmente, ma se non lo riconosciamo iniziano i problemi.
Se, infatti, male interpretiamo male ricordiamo e di conseguenza peggio raccontiamo.
Poi, bisogna rammentare che solo una parte di quanto ci si presenta cattura la nostra attenzione. Ma ciò che non attrae, pur essendo visivamente percepito, non può essere codificato e quindi ricordato.
Detto in altri termini il cervello incamera molte più informazioni di quanto si riesca, poi, a ricordare.
Non sempre, cioè, si riesce ad accedere a questo enorme magazzino.
Questo focalizzare è, però, spesso involontario.
Spesso, poi, l’evento è di breve o brevissima durata perché veloce, improvviso e magari insolito con comprensibile difficoltà a comprendere quanto accaduto.
Il ricordo è, inoltre, una ricostruzione di un qualcosa, non una sua riproduzione. Si ricuciono e si ricompongono informazioni sparse nella mente.
La memoria, in altre parole, non è una serie di fotografie o di immagini asettiche ma è sempre il risultato di una ricostruzione personale.
Non è, dunque, un qualcosa di libero ed oggettivo perché risulterà sempre influenzato dal contesto sociale e culturale nel quale un individuo è cresciuto, in una irresistibile interazione fra individuo, società (con le sue regole, le sue tendenze e i suoi miti) e accaduto.
La memoria non è una registrazione passiva ed istantanea di esperienze vissute, ma si costruisce e continua a costruirsi dopo la fine degli eventi che la hanno generata.
Il ricordo è, infatti, intriso di percezioni, di impressioni, di sentimenti ed immagini che riflettono pesantemente la nostra interpretazione di quanto vissuto.
Il ricordo assomiglia all’evento originario ma non è certamente la sua copia perfetta.
La memoria, in fondo, è un’illusione.
Se, poi, non si ricorda, si tende a volte, inconsciamente, ad avvalersi del “probabilmente” finendo per aggiungere particolari inesistenti.
Ciò riconduce ad un’altra problematica: il falso ricordo.
Sembra, infatti, che se determinate informazioni sono quotidianamente correlate fra loro da nessi logici finiscano per produrre altre informazioni (ricordi) ma false.
Ad esempio la memoria di un letto, di un cuscino e della notte possono creare il ricordo (falso) di un sonno mai assaporato.
Quindi quando le cose hanno delle correlazioni abitudinarie si può genere un ricordo artefatto.
Non necessariamente, in ogni caso, un racconto povero di elementi può essere negativo. Dipende se sono importanti, cioè quanto conta è la qualità non la quantità delle informazioni.
Se poi il ricordo non è completamente spontaneo e diretto ma è il risultato di ragionamenti e ponderazioni, cioè si attua un elaborato processo di recupero, allora si fa una selezione di quanto esiste effettivamente in memoria, come se le informazioni passassero attraverso un imbuto.
Il risultato è che, però, in questo modo, molto può andare perso.
Il problema, allora, è: in quale misura si crea questo sbarramento? Si possono dimenticare dettagli importanti? Ciò che il ricordo non riesce a recuperare viene eliminato
Difficile dare delle risposte assolute.
Ognuno, poi, ha la tendenza a mescolare o ad eliminare gli elementi di una scena, con una ricostruzione del fatto poco realistica.
Se, inoltre, l’episodio non è vissuto in prima persona, cioè non c’è interazione con esso, ma da semplice spettatore, la capacità di ricordare diminuisce, così pure se esso da provocato poca emozione.
Da ultimo, ma non certamente per importanza, sulla qualità del ricordo influisce il modo in cui la persona viene intervistata.
La tecnica interrogativa, cioè, riveste un ruolo fondamentale sulla veridicità di una deposizione perché l’intervistatore può manipolare, più o meno volutamente, la memoria del testimone.
Ad esempio, le domande non devono essere inducenti o fuorvianti.
Oppure, è stato dimostrato che l’uso di una determinata terminologia, piuttosto che un altra, può far selezionare inconsciamente all’intervistato particolari ricordi invece che altri.
Il ricordo, cioè, può essere quanto suggerito dalle domande non da quanto visto.
La memoria è molto malleabile, modificabile e suggestionabile da fattori esterni e può arricchirsi di informazioni che non hanno nulla a che fare con l’evento originale.
Non si devono, poi, dare informazioni, pur se reali, perché finiscono per far ricordare male.
Secondo alcuni, però, comunicare al soggetto notizie errate può essere un modo per testare la sua attendibilità.
Ad esempio osservare come si comporta l’interlocutore dopo avergli suggerito che altri testimoni hanno visto particolari (inventati) non da lui raccontati. E’ evidente che se la sua risposta finisce per essere affermativa la sua credibilità diminuisce paurosamente.
Le domande devono sempre essere aperte.
Ad esempio, nel caso di un avvistamento ufologico, nel senso più ampio del termine, non si può chiedere: “hai visto una luce in cielo?” ma “cosa hai visto?” per non influenzare il soggetto.
Non si devono inserire, poi, “aggettivi” nel formulare domande, ma esse devono essere asettiche e neutre per non suggerire una interpretazione.
Si deve, al contrario, permettere alle persone di raccontare liberamente la propria esperienza, senza pressione psicologica e senza fretta, privilegiando una narrazione spontanea anche se essa sembra dilungarsi in una esposizione approssimativa ed, apparentemente, di scarso significato.
E non dimentichiamoci, neppure, che, a volte, il testimone ha semplicemente bisogno di aprirsi e confidarsi per alleggerire le proprie tensioni emotive.
Sarebbe, poi, auspicabile scegliere un sito ove colloquiarlo in cui si senta a proprio agio, come la sua casa od il suo ufficio, per poi recarsi, in un momento successivo, nel luogo teatro dell’avvistamento per ricostruirne le particolarità.
E non bisognerebbe neppure imitare quanto, spesso, si assiste in televisione dove l’imbonitore o lo scettico di giornata creano, con il loro perenne sorrisino da beoti, un ambiente palesemente ilare per ridicolizzare il povero testimone, con conseguenze nefaste sul suo, già, precario equilibrio psicologico (che ci sarà poi tanto da ridere di fronte ad esperienze, reali o posticce che siano, ma vissute come drammaticamente “vere” dal testimone?).
Bisogna, poi, avere l’elasticità mentale di seguirlo nei suoi ragionamenti, senza modificarne il filo narrativo, per facilitare, non condurre, la sua esposizione.
E’ usanza, al contrario, interrompere la sua narrazione, non solo per sottolineare possibili contraddizioni, cosa doverosa, ma spesso perché le sue affermazioni non soddisfano i convincimenti di chi interroga, ma questo procedere in modo non lineare finisce per limitare il recupero del ricordo.
Quello che si può, al contrario, chiedere al testimone è di provare a ricordare non seguendo una logica sequenziale degli avvenimenti.
Ad esempio iniziare il racconto dalla fine o da qualunque altro momento.
Sembra che tale tecnica porti ad un ricordo migliore.
Chi conduce il colloquio, dunque, deve assumere una posizione neutrale ed oggettiva, non escludendo, a priori, nessuna ipotesi per non farsi, a sua volta, influenzare nel porre domande.
Purtroppo, però, gli interventi dei vari “esperti” di turno finiscono per forzare la memoria nella direzione voluta dai convincimenti personali.
In altre parole se l’intervistatore è un ufologo piuttosto che uno parapsicologo, uno scienziato od uno "scettico" c’è il rischio concreto che il valore, il senso delle dichiarazioni sia diverso a seconda della categoria alla quale egli appartenga, spingendolo in un senso invece che in un altro.
Ad esempio un teologo potrebbe affermare che ciò che ha visto il testimone ha parvenze divine o demoniache, lo psicologo citerà, invece, squilibri della psiche e l’ufologo parlerà di una realtà extraterrestre.
A questo punto è lecito chiedersi chi possono essere la persone più idonee ad intervistare un testimone di fatti straordinari.
Una volta erano considerati i preti, in qualità di uomini di cultura, che però finivano inevitabilmente per attribuire una valenza religiosa a ciò che analizzavano.
Oggi potrebbero, forse, essere gli scienziati, in virtù della loro preparazione mirata ad indagare la natura, ma non escluderei gli psicologi e gli illusionisti (per smascherare eventuali frodi).
E gli "appassionati"?
Ben vengano, ma occorre ancor più prudenza nel valutare i dati raccolti, per i possibili limiti di preparazione, di disponibilità finanziarie e di tempo.
Rimane, in ogni caso, il problema di fondo che qualunque ideologia, o religione o scuola di pensiero finiranno, sempre, per condizionare la conduzione e l’analisi di una testimonianza.
Forse una soluzione, al momento scarsamente realistica per le tradizionali diatribe che dividono le categorie ed i gruppi sociali, potrebbe essere che tanti specialisti, ognuno con la propria esperienza e bagaglio di conoscenza, potessero partecipare, in un momento di feconda sinergia, all’analisi e studio della casistica considerata.
E, proseguendo nella nostra analisi circostanziata, pare proprio che le stesse sedute di ipnosi siano un’arma a doppio taglio.
Si potrebbe ricordare, ad esempio, che in campo ufologico moltissima della documentazione raccolta a comprova del fenomeno stesso si basa sulla semplice testimonianza oculare di una o più persone.
Gli archivi sono, infatti, ricchi di una casistica che si fonda sull’osservazione e successiva dichiarazione, a volte precisa, a volte nebulosa, di un qualcosa che si sarebbe manifestato.
Ecco che capire quanto ci sia di vero in una affermazione diventa un problema che necessita di una soluzione se vogliamo, davvero, indagare e comprendere un determinato fatto.
In ogni caso la testimonianza, anche in presenza di evidenze fisiche e strumentali, è una componente fondamentale nell’interpretare, valutare e soppesare adeguatamente il valore di un episodio.
Per prima cosa bisogna chiedersi che cosa spinga il testimone a parlare: vuole ricevere un conforto, semplicemente capire cosa gli sia accaduto oppure lo fa perché forzato dalle circostanze, senza una reale esigenza di sottoporsi ad un esame metodico perché, magari, già soddisfatto dei propri convincimenti?
Oppure lo fa per denaro, fama o, ancor peggio, per destabilizzare ed inquinare la ricerca seria su di un fenomeno?
Capirne il fine può dare un senso ed un valore diverso ad una dichiarazione, in un rispetto che deve, comunque, essere sempre presente verso i testimoni anche perché, nella grande maggioranza dei casi, sono persone adulte, mature e socialmente rispettabili, con un sano timore di esporsi pubblicamente per non cadere nel ridicolo e mettere a repentaglio la propria pace e tranquillità famigliare.
Vediamo ora di razionalizzare e schematizzare il problema per rispondere concretamente alle domande iniziali.
Da una parte abbiamo il “fatto”, dall’altro il “racconto”, con in mezzo la “memoria” che è strettamente correlata ad entrambi, implementandosi con il primo e creando il secondo.
Di seguito analizzeremo questi tre momenti, fondamentali per avere una ricostruzione la più realistica possibile di un qualsivoglia episodio.
E da quanto verrà esposto ci renderemo conto di quante siano le variabili che possono finire per influenzare una deposizione testimoniale.
Esse possono essere legate a fattori fisici, mentali, psicologici, sociali, culturali, ambientali e religiosi.
Le sorprese, dunque, non mancheranno.
Partiamo dalla memoria.
Come la potremmo definire?
Secondo la definizione comune è quel processo cerebrale che permette l’archiviazione delle informazioni acquisite.
Essa si concretizza nella realizzazione di una rete di collegamento, intesa come una serie di migliaia di connessioni dette sinapsi, fra i neuroni, le cellule del cervello.
Acquisire memoria significa, in altre parole, modulare in modi sempre diversi tali sinapsi.
Tale processo, che consente l’organizzazione di strutture sempre più complesse, avviene tramite una serie di microimpulsi di cariche elettriche. Queste modificazioni devono, però, essere stabilizzate e consolidate, cosa che avviene tramite la sintesi di proteine, altrimenti la loro forza decresce rapidamente ed il ricordo svanisce.
Le sinapsi, poi, sono localizzate per la maggior parte nella neocorteccia, la regione cerebrale evolutivamente più recente.
Ma il cervello da dove attinge le informazioni sulle quali, poi, “lavorare”?
Ovviamente e sostanzialmente, anche se non esclusivamente, da nostri occhi.
Si potrebbe dire, però, che “...si “guarda” con gli occhi ma si “vede “ con il cervello...” perché è quest’ultimo che decodifica i segnali che provengono dall’ambiente esterno tramite il sistema visivo, che comprende i bulbi oculari e i nervi ottici.
Esistono, inoltre, due tipi di memoria: una breve della durata di pochi secondi o qualche minuto, con modificazioni transitorie dell’attività sinaptica, ed una a lungo termine, che può preservarsi per ore o per tutta la vita.
Il cervello, poi, non raggruppa le immagini, i suoni e gli odori, cioè tutto ciò che fa parte di un ricordo, in un unico punto, ma distribuisce la memoria in aree differenti, da risvegliare e recuperare all’occorrenza.
Questo per permettere una maggiore flessibilità nel recuperare una reminescenza.
Infatti le memorie sono per la maggior parte inframmischiate, nel senso che un “evento” è associato a tanti ricordi differenti che a loro volta coinvolgono altri ricordi memorizzati in tempi e luoghi diversi.
Non esiste, dunque, un impacchettamento ed immagazzinamento rigido e definito.
Al contrario le reti neuronali sono annidiate l’una dentro l’altra, cioè sovrapposte ed interconnesse, soggette ad espansione e ricombinazione.
Nulla rimane statico, senza considerare la loro naturale vulnerabilità dovuta all’invecchiamento.
Riassumendo, a questo punto, appare evidente che la chiave per capire se esiste una discrepanza fra quanto accaduto e quanto raccontato si basa sul funzionamento della memoria.
Ed il suo studio dimostra che non esiste, o è rarissima, la testimonianza ideale dove l’individuo racconta tutto quanto ha osservato e fedelmente.
Infatti, spesso, presupponendo come ipotesi iniziale una condizione di buona fede, il ricordo è parziale o distorto.
Per tutta una serie di motivi, che poi analizzeremo, le persone tendono, con il tempo, a modificare il ricordo, ad aggiungere fatti nuovi ed a dimenticarne altri oppure a creare fatti mai realmente vissuti, pur nella convinzione di dire la verità.
In altre parole la testimonianza erronea è la regola ma si mente non sapendo di mentire.
Una statistica, ad esempio, ha dimostrato come un testimone, posto di fronte ad una lista di possibili colpevoli, abbia, per ben il 76% delle volte, errato completamente l’identificazione del reo, avendo indicato, in sua vece, un agente di polizia schierato appositamente nella lista per testare l’attendibilità dell’identificatore.
Ma anche se la testimonianza è resa quando l’accaduto è recente, contrariamente all’opinione corrente, vi sono delle caratteristiche che influiscono pesantemente sulla qualità di una deposizione.
Pure l’età del testimone è importante.
Ad esempio i bambini hanno la tendenza ad avere cattivi ricordi perché il meccanismo della memoria è ancora meno perfezionato che negli adulti, ma è altrettanto vero che una persona anziana ha, spesso, cattiva memoria.
Questo perché con l’invecchiamento la plasticità delle sinapsi diminuisce e le sue modificazioni sono transitorie, senza considerare altre malattie di tipo degenerativo.
Poi è importante la consapevolezza del soggetto al momento dell’episodio.
Stava dormendo oppure era sveglio? Ed in questo caso il suo grado di attenzione quale era?
Il soggetto si aspettava, in un qualche modo, quanto poi sarebbe accaduto o è stata una sorta di fulmine a ciel sereno?
E’ evidente che un qualcosa di inatteso rende meno affidabile il ricordo.
Il testimone, inoltre, cosa stava facendo in quel momento? Era molto coinvolto da le faccende che lo occupavano?
Quale è la sua capacità di interpretazione degli stimoli che riceve? E, questa, varia molto da individuo ad individuo, non dimenticando che nella mente si memorizza quanto interpretato, giusto o sbagliato che sia, in quel momento.
Non tutti, poi, hanno lo stesso interesse verso quanto accade e questo influisce sul desiderio di ricordare, sul cercare di essere precisi ed, inevitabilmente, sulla qualità del ricordo stesso.
Inoltre bisogna capire a quale scopo, magari inconscio, è votato il testimone, cioè la sua intenzione. E’ chiaro, ad esempio, che uno “scettico” presenterà l’episodio in modo da indirizzare l’investigatore verso conclusioni di tipo convenzionale.
La nostra memoria, poi, codifica le informazioni in base a degli schemi predefiniti.
C’è un esempio illuminante di come l’esperienza ed il contesto culturale influiscano sulla interpretazione di quanto si vede.
Anni fa venne mostrato il disegno di un UFO, con il relativo equipaggio extraterrestre, ad un gruppo di indigeni del Gabon.
Ebbene, contrariamente alle aspettative, vennero interpretati come ispettori minerari.
In altre parole tutti noi abbiamo degli stereotipi, che dipendono dalla nostra cultura e dalla nostra formazione, in basi ai quali ad una determinata cosa vengono associate delle caratteristiche ben precise, anche se, magari, non reali. Ed in base a quelli noi interpretiamo quanto vediamo. Lo si guarda, dunque, con occhio personale e soggettivo, specialmente se quanto osservato non è ben definito.
A volte, addirittura, gli stereotipi stessi, oppure il vissuto, possono completare il ricordo medesimo, ovviamente con dati non reali.
Cioè si aggiungono informazioni che solitamente accompagnano, nella vita quotidiana, quanto osservato o udito oggetto della testimonianza.
Senza dimenticare che, se quanto vediamo non assomiglia a nulla che faccia parte del nostro bagaglio di esperienze, noi non riusciamo a comprenderlo e, di conseguenza, a ricordarlo correttamente. La percezione, cioè, può essere corretta, nel senso che vediamo quello che è realmente, ma se non lo riconosciamo iniziano i problemi.
Se, infatti, male interpretiamo male ricordiamo e di conseguenza peggio raccontiamo.
Poi, bisogna rammentare che solo una parte di quanto ci si presenta cattura la nostra attenzione. Ma ciò che non attrae, pur essendo visivamente percepito, non può essere codificato e quindi ricordato.
Detto in altri termini il cervello incamera molte più informazioni di quanto si riesca, poi, a ricordare.
Non sempre, cioè, si riesce ad accedere a questo enorme magazzino.
Questo focalizzare è, però, spesso involontario.
Spesso, poi, l’evento è di breve o brevissima durata perché veloce, improvviso e magari insolito con comprensibile difficoltà a comprendere quanto accaduto.
Il ricordo è, inoltre, una ricostruzione di un qualcosa, non una sua riproduzione. Si ricuciono e si ricompongono informazioni sparse nella mente.
La memoria, in altre parole, non è una serie di fotografie o di immagini asettiche ma è sempre il risultato di una ricostruzione personale.
Non è, dunque, un qualcosa di libero ed oggettivo perché risulterà sempre influenzato dal contesto sociale e culturale nel quale un individuo è cresciuto, in una irresistibile interazione fra individuo, società (con le sue regole, le sue tendenze e i suoi miti) e accaduto.
La memoria non è una registrazione passiva ed istantanea di esperienze vissute, ma si costruisce e continua a costruirsi dopo la fine degli eventi che la hanno generata.
Il ricordo è, infatti, intriso di percezioni, di impressioni, di sentimenti ed immagini che riflettono pesantemente la nostra interpretazione di quanto vissuto.
Il ricordo assomiglia all’evento originario ma non è certamente la sua copia perfetta.
La memoria, in fondo, è un’illusione.
Se, poi, non si ricorda, si tende a volte, inconsciamente, ad avvalersi del “probabilmente” finendo per aggiungere particolari inesistenti.
Ciò riconduce ad un’altra problematica: il falso ricordo.
Sembra, infatti, che se determinate informazioni sono quotidianamente correlate fra loro da nessi logici finiscano per produrre altre informazioni (ricordi) ma false.
Ad esempio la memoria di un letto, di un cuscino e della notte possono creare il ricordo (falso) di un sonno mai assaporato.
Quindi quando le cose hanno delle correlazioni abitudinarie si può genere un ricordo artefatto.
Non necessariamente, in ogni caso, un racconto povero di elementi può essere negativo. Dipende se sono importanti, cioè quanto conta è la qualità non la quantità delle informazioni.
Se poi il ricordo non è completamente spontaneo e diretto ma è il risultato di ragionamenti e ponderazioni, cioè si attua un elaborato processo di recupero, allora si fa una selezione di quanto esiste effettivamente in memoria, come se le informazioni passassero attraverso un imbuto.
Il risultato è che, però, in questo modo, molto può andare perso.
Il problema, allora, è: in quale misura si crea questo sbarramento? Si possono dimenticare dettagli importanti? Ciò che il ricordo non riesce a recuperare viene eliminato
Difficile dare delle risposte assolute.
Ognuno, poi, ha la tendenza a mescolare o ad eliminare gli elementi di una scena, con una ricostruzione del fatto poco realistica.
Se, inoltre, l’episodio non è vissuto in prima persona, cioè non c’è interazione con esso, ma da semplice spettatore, la capacità di ricordare diminuisce, così pure se esso da provocato poca emozione.
Da ultimo, ma non certamente per importanza, sulla qualità del ricordo influisce il modo in cui la persona viene intervistata.
La tecnica interrogativa, cioè, riveste un ruolo fondamentale sulla veridicità di una deposizione perché l’intervistatore può manipolare, più o meno volutamente, la memoria del testimone.
Ad esempio, le domande non devono essere inducenti o fuorvianti.
Oppure, è stato dimostrato che l’uso di una determinata terminologia, piuttosto che un altra, può far selezionare inconsciamente all’intervistato particolari ricordi invece che altri.
Il ricordo, cioè, può essere quanto suggerito dalle domande non da quanto visto.
La memoria è molto malleabile, modificabile e suggestionabile da fattori esterni e può arricchirsi di informazioni che non hanno nulla a che fare con l’evento originale.
Non si devono, poi, dare informazioni, pur se reali, perché finiscono per far ricordare male.
Secondo alcuni, però, comunicare al soggetto notizie errate può essere un modo per testare la sua attendibilità.
Ad esempio osservare come si comporta l’interlocutore dopo avergli suggerito che altri testimoni hanno visto particolari (inventati) non da lui raccontati. E’ evidente che se la sua risposta finisce per essere affermativa la sua credibilità diminuisce paurosamente.
Le domande devono sempre essere aperte.
Ad esempio, nel caso di un avvistamento ufologico, nel senso più ampio del termine, non si può chiedere: “hai visto una luce in cielo?” ma “cosa hai visto?” per non influenzare il soggetto.
Non si devono inserire, poi, “aggettivi” nel formulare domande, ma esse devono essere asettiche e neutre per non suggerire una interpretazione.
Si deve, al contrario, permettere alle persone di raccontare liberamente la propria esperienza, senza pressione psicologica e senza fretta, privilegiando una narrazione spontanea anche se essa sembra dilungarsi in una esposizione approssimativa ed, apparentemente, di scarso significato.
E non dimentichiamoci, neppure, che, a volte, il testimone ha semplicemente bisogno di aprirsi e confidarsi per alleggerire le proprie tensioni emotive.
Sarebbe, poi, auspicabile scegliere un sito ove colloquiarlo in cui si senta a proprio agio, come la sua casa od il suo ufficio, per poi recarsi, in un momento successivo, nel luogo teatro dell’avvistamento per ricostruirne le particolarità.
E non bisognerebbe neppure imitare quanto, spesso, si assiste in televisione dove l’imbonitore o lo scettico di giornata creano, con il loro perenne sorrisino da beoti, un ambiente palesemente ilare per ridicolizzare il povero testimone, con conseguenze nefaste sul suo, già, precario equilibrio psicologico (che ci sarà poi tanto da ridere di fronte ad esperienze, reali o posticce che siano, ma vissute come drammaticamente “vere” dal testimone?).
Bisogna, poi, avere l’elasticità mentale di seguirlo nei suoi ragionamenti, senza modificarne il filo narrativo, per facilitare, non condurre, la sua esposizione.
E’ usanza, al contrario, interrompere la sua narrazione, non solo per sottolineare possibili contraddizioni, cosa doverosa, ma spesso perché le sue affermazioni non soddisfano i convincimenti di chi interroga, ma questo procedere in modo non lineare finisce per limitare il recupero del ricordo.
Quello che si può, al contrario, chiedere al testimone è di provare a ricordare non seguendo una logica sequenziale degli avvenimenti.
Ad esempio iniziare il racconto dalla fine o da qualunque altro momento.
Sembra che tale tecnica porti ad un ricordo migliore.
Chi conduce il colloquio, dunque, deve assumere una posizione neutrale ed oggettiva, non escludendo, a priori, nessuna ipotesi per non farsi, a sua volta, influenzare nel porre domande.
Purtroppo, però, gli interventi dei vari “esperti” di turno finiscono per forzare la memoria nella direzione voluta dai convincimenti personali.
In altre parole se l’intervistatore è un ufologo piuttosto che uno parapsicologo, uno scienziato od uno "scettico" c’è il rischio concreto che il valore, il senso delle dichiarazioni sia diverso a seconda della categoria alla quale egli appartenga, spingendolo in un senso invece che in un altro.
Ad esempio un teologo potrebbe affermare che ciò che ha visto il testimone ha parvenze divine o demoniache, lo psicologo citerà, invece, squilibri della psiche e l’ufologo parlerà di una realtà extraterrestre.
A questo punto è lecito chiedersi chi possono essere la persone più idonee ad intervistare un testimone di fatti straordinari.
Una volta erano considerati i preti, in qualità di uomini di cultura, che però finivano inevitabilmente per attribuire una valenza religiosa a ciò che analizzavano.
Oggi potrebbero, forse, essere gli scienziati, in virtù della loro preparazione mirata ad indagare la natura, ma non escluderei gli psicologi e gli illusionisti (per smascherare eventuali frodi).
E gli "appassionati"?
Ben vengano, ma occorre ancor più prudenza nel valutare i dati raccolti, per i possibili limiti di preparazione, di disponibilità finanziarie e di tempo.
Rimane, in ogni caso, il problema di fondo che qualunque ideologia, o religione o scuola di pensiero finiranno, sempre, per condizionare la conduzione e l’analisi di una testimonianza.
Forse una soluzione, al momento scarsamente realistica per le tradizionali diatribe che dividono le categorie ed i gruppi sociali, potrebbe essere che tanti specialisti, ognuno con la propria esperienza e bagaglio di conoscenza, potessero partecipare, in un momento di feconda sinergia, all’analisi e studio della casistica considerata.
E, proseguendo nella nostra analisi circostanziata, pare proprio che le stesse sedute di ipnosi siano un’arma a doppio taglio.
Se è pur vero che, tramite esse, si recuperano effettivamente dei ricordi, è stato appurato che il 50% di essi sono falsi, come dimostrato da una nutrita casistica in ambito criminoso, tanto è vero che esse non vengono accettate come prove nella maggioranza dei tribunali.
Addirittura negli Stati Uniti chi si è sottoposto ad ipnosi non può testimoniare in riferimento all’oggetto dell’ipnosi medesima perché essa può aver creato dei falsi ricordi. Quindi, in questi casi, la testimonianza completa, indipendentemente da come ottenuta, non viene considerata valida.
Proseguiamo.
L’analisi degli stessi sogni, compiuta da psicologi e psichiatri, può essere legata, a volte, ad un ricordo reale.
Il problema, però, è che esso comunica per “simboli” e non esiste una corrispondenza precisa fra essi ed il loro significato.
Il fatto, dunque, può essere mascherato da un suo simbolismo ma è difficile capire quando è effettivamente così o si riferisce piuttosto ad una problematica esistenziale.
A questo punto se il terapeuta interpreta il sogno in un determinato modo il paziente finirà per convincersi di aver vissuto realmente un’esperienza consona a quanto sostenuto dal professionista, con la conseguenza, se esiste una particolare rapporto di fiducia, di crearsi dei falsi ricordi.
E bastano solo trenta minuti di una seduta per “cambiare” il trascorso di una persona, magari unendo, in modo apparentemente logico, un’insieme di fatti realmente accaduti.
Il ricordo, dunque, può essere il prodotto “ex novo” della terapia, una sorta di “castello” costruito artificiosamente da ipnotisti poco preparati che si presenta, spesso, pure ricco di particolari.
Ciò che, forse, permette di cogliere una sfumatura di realismo in una narrazione sotto ipnosi è l’estrema e drammatica partecipazione emotiva che vive il paziente mentre racconta.
Ritornando alle corrette modalità da utilizzare nel disporre un’intervista è importante ricordare come non sia facile per l’intervistatore essere imparziale perché noi tutti siamo abituati ad interloquire con affermazioni che non devono sottintendere nulla e cerchiamo conferme, con le nostre dichiarazioni, alle proprie convinzioni.
Il discorso è, in ogni caso, complesso, perché, al contrario ed in alcuni casi, domande appropriate possono facilitare il recupero del ricordo.
Ad esempio suggerire la presenza di determinati elementi, come i colori, i suoni e gli odori, può far riaffiorare una reminiscenza tramite una primaria ricostruzione dell’ambiente e del contesto in cui si è svolta la scena.
Come non ricordare, al proposito, il libro “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust dove l’autore descrive, molto accuratamente, il legame inscindibile tra determinate emozioni sensoriali ed il ricordo di un evento ad esse associato.
Proseguiamo.
L’analisi degli stessi sogni, compiuta da psicologi e psichiatri, può essere legata, a volte, ad un ricordo reale.
Il problema, però, è che esso comunica per “simboli” e non esiste una corrispondenza precisa fra essi ed il loro significato.
Il fatto, dunque, può essere mascherato da un suo simbolismo ma è difficile capire quando è effettivamente così o si riferisce piuttosto ad una problematica esistenziale.
A questo punto se il terapeuta interpreta il sogno in un determinato modo il paziente finirà per convincersi di aver vissuto realmente un’esperienza consona a quanto sostenuto dal professionista, con la conseguenza, se esiste una particolare rapporto di fiducia, di crearsi dei falsi ricordi.
E bastano solo trenta minuti di una seduta per “cambiare” il trascorso di una persona, magari unendo, in modo apparentemente logico, un’insieme di fatti realmente accaduti.
Il ricordo, dunque, può essere il prodotto “ex novo” della terapia, una sorta di “castello” costruito artificiosamente da ipnotisti poco preparati che si presenta, spesso, pure ricco di particolari.
Ciò che, forse, permette di cogliere una sfumatura di realismo in una narrazione sotto ipnosi è l’estrema e drammatica partecipazione emotiva che vive il paziente mentre racconta.
Ritornando alle corrette modalità da utilizzare nel disporre un’intervista è importante ricordare come non sia facile per l’intervistatore essere imparziale perché noi tutti siamo abituati ad interloquire con affermazioni che non devono sottintendere nulla e cerchiamo conferme, con le nostre dichiarazioni, alle proprie convinzioni.
Il discorso è, in ogni caso, complesso, perché, al contrario ed in alcuni casi, domande appropriate possono facilitare il recupero del ricordo.
Ad esempio suggerire la presenza di determinati elementi, come i colori, i suoni e gli odori, può far riaffiorare una reminiscenza tramite una primaria ricostruzione dell’ambiente e del contesto in cui si è svolta la scena.
Come non ricordare, al proposito, il libro “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust dove l’autore descrive, molto accuratamente, il legame inscindibile tra determinate emozioni sensoriali ed il ricordo di un evento ad esse associato.
Nelle domande, inoltre, che esigono una risposta affermativa o negativa, cioè un si o un no, specialmente in soggetti poco maturi, le persone hanno la tendenza a rispondere positivamente anche quando potrebbe essere di senso contrario.
L’inquirente, poi, non deve mostrarsi ne fiducioso ne demoralizzato perché l’interrogato è portato ad assecondare l’interlocutore, modificando, di conseguenza il tono delle sue risposte. C’è una sorta di compiacenza nel senso che dice ciò che il ricercatore vuol sentirsi dire, a volte, anche per una insistenza eccessiva di quest’ultimo su determinati aspetti del resoconto.
E se il soggetto presenta quella che in psicanalisi si chiama una “personalità multipla”, cioè la tendenza a sentirsi individui con un profilo psicologico diverso, se non addirittura opposto, a seconda delle circostanze e dei momenti?
Se da una parte ciò può produrre, in una fase iniziale, dei benefici per il soggetto perché libera il suo inconscio da tensioni probabilmente insopportabili, da punto di vista dell’attendibilità la sua testimonianza perde qualsiasi valore perché egli finisce per vivere in una realtà virtuale, seppur, momentaneamente, liberatoria.
Oppure che dire di quelle persone dotate di una spiccata attività intellettuale legata al “fantastico”?
Sembra che tale fantasia, così viva e palpitante, impedisca, a volte, di realizzare una precisa distinzione fra finzione e realtà.
E pare che, in entrambi i casi, la facilità di creare falsi ricordi aumenti considerevolmente.
Esiste, poi, uno strano e paradossale effetto della memoria, che consiste nel convincere il testimone che più ricorda di un episodio più gli rimangono delle informazioni da raccontare ma che, al momento, non riesce a ricordare.
A questo punto appare evidente che risulta indispensabile capire dove la testimonianza la si possa considerare attendibile o meno.
E ci sono diverse cose che ci possono aiutare in tal senso.
Ad esempio, in un discorso più generale, prima si intervista il soggetto e meglio è.
I dettagli, infatti, entrano in una sorta di memoria temporanea e si perdono velocemente.
Poi, quello che rimane con il tempo, non è più la modalità di presentazione del fatto ma solo il suo concetto astratto, con una rilevanza sempre minore per una indagine di tipo scientifico.
Da studi approfonditi, pare, poi, che il ricordo sia migliore se al fatto di cui si è stati testimoni si fa seguire un buon sonno.
Considerando, infatti, che esso segue un processo di elaborazione ed organizzazione per meglio consolidarsi, il sonno sembra offrire quelle condizioni ideali di isolamento prolungato da interferenze esterne affinché tale sintesi avvenga efficacemente.
Per questo, anche se la cosa può far sorridere, sarebbe importante appurare cosa abbia fatto il testimone successivamente all’episodio.
Ma bisogna, pure, ricordare che nelle fasi pre e post sonno la mente non si comporta in modo equilibrato perché non riesce a valutare correttamente l’ambiente circostante.
Quindi il ricordo di un qualcosa sperimentato in queste fasi rischia di essere modestamente attendibile.
Senza dimenticare, poi, e come già ricordato, che il ricordo può venire modificato, involontariamente, da informazioni sopraggiunte successivamente.
Ciò che si apprende, cioè, modifica il ricordo stesso.
Proseguendo, è importante, nel nostro contesto, l’uso della testimonianza incrociata, cioè capire come diverse persone hanno visto un medesimo episodio.
Il problema è che, spesso, il testimone è singolo, oppure le affermazioni di più soggetti risultano fra loro discordanti.
Bisogna, pure, evitare che gli individui interessati possano parlare fra loro per impedire di influenzarsi a vicenda, in una sorta di effetto contagio.
Importante è, anche, intervistare il testimone in prima persona e prima che abbia subito parecchi interrogatori. Di passaggio in passaggio, infatti, il racconto finisce per modificarsi radicalmente.
Poi, chi intervista, non deve farsi condizionare dal tono e dalla sicurezza del soggetto che racconta. Quest’ultima, infatti, non è indice di verità ma del carattere della persona.
Anche un linguaggio particolarmente curato ed appropriato non deve dare maggior veridicità al racconto.
Al contrario, da una certa casistica, sembra che l’eccessiva conoscenza, tipica delle persone colte, può diminuire la precisione della memoria perché il soggetto si appella a questa ricchezza di informazioni per completare, inconsciamente, il ricordo.
Ci troveremmo di fronte, in sostanza, ad una sorta di contaminazione del ricordo genuino.
E’ fondamentale, poi, tracciare un profilo anamnestico del testimone, cioè raccogliere tutte le informazioni riguardanti i precedenti fisiologici e patologici, personali ed ereditari.
Ciò permetterà di meglio comprendere, con i maggiori dati possibili, che si sta analizzando.
Ad esempio chi soffre di epilessia può dar corso a sfasamenti della personalità con conseguenti alterazioni della propria identità.
Bisogna, inoltre, controllare se il soggetto soffre, in generale, di patologie mentali.
Oppure se è un alcoolista e che tipo di alimentazione segue.
Può sembrare eccessivo curare questa particolarità ma è stato appurato che un’alimentazione carente di vitamina B1 non solo provoca difficoltà al soggetto che ne è vittima di creare nuovi ricordi ma produce anche amnesie per quelli precedenti all’instaurarsi della malattia.
In casi, poi, di asportazione, pur se parziale, di parti cerebrali, come l’amigdala, si assiste ad una inibizione, in tutto od in parte, della capacità di ricordare.
Insomma bisogna capire chi è il testimone, il suo quadro clinico, la sua personalità, la sua vita privata con le sue speranze, aspirazioni e debolezze.
Avere, cioè, un ritratto psicofisico da dove emergano non solo le malattie ma, anche, gli stati emozionali (ansia, sensibilità, paranoia,affaticamento mentale) che lo caratterizzano perché essi possono far nascere nel soggetto delle necessità inderogabili (bisogno di sicurezza, autostima, riconoscimento sociale) che la mente soddisfa con creazioni fantasiose ed irreali.
Senza dimenticare che in caso di forte emotività egli tenderà, in modo primario, alla propria sicurezza piuttosto che a stimoli e a fattori esterni che vengono, dunque, posti in un piano secondario. Ed è ovvio che questa selezione nell’attenzione ha delle pesanti ripercussioni sulla qualità di una testimonianza.
Sarebbe, pure, importante conoscere se ha già avuto esperienze insolite per poter inserire quanto accaduto in un contesto più ampio.
Ad esempio Betty Hill, che con il marito Barney dichiarò non solo di essere stata rapita da esseri extraterrestri nel 1961, ma di aver sperimentato, unitamente ad una parte della propria parentela, fenomeni di poltergeist, sogni premonitori ed altre vicissitudini dai connotati paranormali (naturalmente si parla di "convinzione" dell'aver vissuto l'esperienze, non della loro veridicità sostanziale).
Esiste, forse, una predisposizione a percepire un evento come anomalo ed occulto?
C'è, allora, una discriminante fra gli individui?
L’inquirente, poi, non deve mostrarsi ne fiducioso ne demoralizzato perché l’interrogato è portato ad assecondare l’interlocutore, modificando, di conseguenza il tono delle sue risposte. C’è una sorta di compiacenza nel senso che dice ciò che il ricercatore vuol sentirsi dire, a volte, anche per una insistenza eccessiva di quest’ultimo su determinati aspetti del resoconto.
E se il soggetto presenta quella che in psicanalisi si chiama una “personalità multipla”, cioè la tendenza a sentirsi individui con un profilo psicologico diverso, se non addirittura opposto, a seconda delle circostanze e dei momenti?
Se da una parte ciò può produrre, in una fase iniziale, dei benefici per il soggetto perché libera il suo inconscio da tensioni probabilmente insopportabili, da punto di vista dell’attendibilità la sua testimonianza perde qualsiasi valore perché egli finisce per vivere in una realtà virtuale, seppur, momentaneamente, liberatoria.
Oppure che dire di quelle persone dotate di una spiccata attività intellettuale legata al “fantastico”?
Sembra che tale fantasia, così viva e palpitante, impedisca, a volte, di realizzare una precisa distinzione fra finzione e realtà.
E pare che, in entrambi i casi, la facilità di creare falsi ricordi aumenti considerevolmente.
Esiste, poi, uno strano e paradossale effetto della memoria, che consiste nel convincere il testimone che più ricorda di un episodio più gli rimangono delle informazioni da raccontare ma che, al momento, non riesce a ricordare.
A questo punto appare evidente che risulta indispensabile capire dove la testimonianza la si possa considerare attendibile o meno.
E ci sono diverse cose che ci possono aiutare in tal senso.
Ad esempio, in un discorso più generale, prima si intervista il soggetto e meglio è.
I dettagli, infatti, entrano in una sorta di memoria temporanea e si perdono velocemente.
Poi, quello che rimane con il tempo, non è più la modalità di presentazione del fatto ma solo il suo concetto astratto, con una rilevanza sempre minore per una indagine di tipo scientifico.
Da studi approfonditi, pare, poi, che il ricordo sia migliore se al fatto di cui si è stati testimoni si fa seguire un buon sonno.
Considerando, infatti, che esso segue un processo di elaborazione ed organizzazione per meglio consolidarsi, il sonno sembra offrire quelle condizioni ideali di isolamento prolungato da interferenze esterne affinché tale sintesi avvenga efficacemente.
Per questo, anche se la cosa può far sorridere, sarebbe importante appurare cosa abbia fatto il testimone successivamente all’episodio.
Ma bisogna, pure, ricordare che nelle fasi pre e post sonno la mente non si comporta in modo equilibrato perché non riesce a valutare correttamente l’ambiente circostante.
Quindi il ricordo di un qualcosa sperimentato in queste fasi rischia di essere modestamente attendibile.
Senza dimenticare, poi, e come già ricordato, che il ricordo può venire modificato, involontariamente, da informazioni sopraggiunte successivamente.
Ciò che si apprende, cioè, modifica il ricordo stesso.
Proseguendo, è importante, nel nostro contesto, l’uso della testimonianza incrociata, cioè capire come diverse persone hanno visto un medesimo episodio.
Il problema è che, spesso, il testimone è singolo, oppure le affermazioni di più soggetti risultano fra loro discordanti.
Bisogna, pure, evitare che gli individui interessati possano parlare fra loro per impedire di influenzarsi a vicenda, in una sorta di effetto contagio.
Importante è, anche, intervistare il testimone in prima persona e prima che abbia subito parecchi interrogatori. Di passaggio in passaggio, infatti, il racconto finisce per modificarsi radicalmente.
Poi, chi intervista, non deve farsi condizionare dal tono e dalla sicurezza del soggetto che racconta. Quest’ultima, infatti, non è indice di verità ma del carattere della persona.
Anche un linguaggio particolarmente curato ed appropriato non deve dare maggior veridicità al racconto.
Al contrario, da una certa casistica, sembra che l’eccessiva conoscenza, tipica delle persone colte, può diminuire la precisione della memoria perché il soggetto si appella a questa ricchezza di informazioni per completare, inconsciamente, il ricordo.
Ci troveremmo di fronte, in sostanza, ad una sorta di contaminazione del ricordo genuino.
E’ fondamentale, poi, tracciare un profilo anamnestico del testimone, cioè raccogliere tutte le informazioni riguardanti i precedenti fisiologici e patologici, personali ed ereditari.
Ciò permetterà di meglio comprendere, con i maggiori dati possibili, che si sta analizzando.
Ad esempio chi soffre di epilessia può dar corso a sfasamenti della personalità con conseguenti alterazioni della propria identità.
Bisogna, inoltre, controllare se il soggetto soffre, in generale, di patologie mentali.
Oppure se è un alcoolista e che tipo di alimentazione segue.
Può sembrare eccessivo curare questa particolarità ma è stato appurato che un’alimentazione carente di vitamina B1 non solo provoca difficoltà al soggetto che ne è vittima di creare nuovi ricordi ma produce anche amnesie per quelli precedenti all’instaurarsi della malattia.
In casi, poi, di asportazione, pur se parziale, di parti cerebrali, come l’amigdala, si assiste ad una inibizione, in tutto od in parte, della capacità di ricordare.
Insomma bisogna capire chi è il testimone, il suo quadro clinico, la sua personalità, la sua vita privata con le sue speranze, aspirazioni e debolezze.
Avere, cioè, un ritratto psicofisico da dove emergano non solo le malattie ma, anche, gli stati emozionali (ansia, sensibilità, paranoia,affaticamento mentale) che lo caratterizzano perché essi possono far nascere nel soggetto delle necessità inderogabili (bisogno di sicurezza, autostima, riconoscimento sociale) che la mente soddisfa con creazioni fantasiose ed irreali.
Senza dimenticare che in caso di forte emotività egli tenderà, in modo primario, alla propria sicurezza piuttosto che a stimoli e a fattori esterni che vengono, dunque, posti in un piano secondario. Ed è ovvio che questa selezione nell’attenzione ha delle pesanti ripercussioni sulla qualità di una testimonianza.
Sarebbe, pure, importante conoscere se ha già avuto esperienze insolite per poter inserire quanto accaduto in un contesto più ampio.
Ad esempio Betty Hill, che con il marito Barney dichiarò non solo di essere stata rapita da esseri extraterrestri nel 1961, ma di aver sperimentato, unitamente ad una parte della propria parentela, fenomeni di poltergeist, sogni premonitori ed altre vicissitudini dai connotati paranormali (naturalmente si parla di "convinzione" dell'aver vissuto l'esperienze, non della loro veridicità sostanziale).
Esiste, forse, una predisposizione a percepire un evento come anomalo ed occulto?
C'è, allora, una discriminante fra gli individui?
Ma veniamo alla situazione peggiore perché ancor più difficile da dipanare.
Abbiamo visto quanto sia difficile comprendere quale sia la verità nel ricordo di una persona in buona fede.
Ma se, invece, essa mentisse, magari in parte, come sembra interessare buona parte della casistica contattista?
Ci troveremmo, allora, di fronte ad un coacervo di informazioni di natura ibrida, una sorta di intricata foresta tropicale irta di insidie.
Potremmo citare, allo scopo, il nome di Eugenio Siragusa, contattista catanese della seconda metà del 1900.
Ma se, invece, essa mentisse, magari in parte, come sembra interessare buona parte della casistica contattista?
Ci troveremmo, allora, di fronte ad un coacervo di informazioni di natura ibrida, una sorta di intricata foresta tropicale irta di insidie.
Potremmo citare, allo scopo, il nome di Eugenio Siragusa, contattista catanese della seconda metà del 1900.
Fu, probabilmente, testimone di una esperienza da lui ritenuta genuinamente straordinaria, con un importante lavoro di elaborazione del proprio vissuto per poter capire quanto pensava gli fosse accaduto, in modo da rendere gestibile ed accettabile il fatto.
Poi, secondo molti, vi fu un allontanamento sempre più cosciente da questa realtà primaria, seppur soggettiva, per non far spegnere l’eccezionalità della propria esperienza.
Ricapitolando, un soggetto, quindi, potrebbe partire da affermazioni sincere (che poi il loro contenuto sia reale è un altro discorso) per poi mentire.
Ma per quale motivo una persona dovrebbe raccontar menzogne?
Le ragioni possono essere tante.
Un semplice disordine mentale od una personalità disturbata. Nulla di logico, dunque, in tale comportamento.
Oppure ci troviamo di fronte a semplici mitomani in cerca di notorietà con un livello intellettivo talmente infimo da non permette loro di cogliere le conseguenze delle proprie azioni.
In altri casi, invece, il testimone si sente costretto a raccontare menzogne per dare credibilità ad un qualcosa che non è dimostrabile concretamente.
Infine, ed è il caso peggiore, vi sono coloro che mentono per ottenere precisi vantaggi economici, vendendo materiale falsificato o la propria esperienza fasulla, approfittando della poca serietà di parte degli organi di informazione desiderosa unicamente di far presa su un’opinione pubblica ansiosa di notizie sensazionali.
Oppure per fare il gioco di qualche gruppo di potere.
A questo punto è lecito chiedersi se non vi possano essere degli artifici e degli accorgimenti per cogliere una menzogna nella testimonianza.
E, per fortuna, qualcosa si può fare.
Già il comportamento non verbale di un individuo può suggerirci utili informazioni.
Chi mente, solitamente, distoglie lo sguardo dal proprio interlocutore, arrossisce, si muove non in modo rilassato e con una rigidità inconsueta nelle movenze ed il viso e la voce tradiscono una particolare emotività.
Bugiardi esperti riescono, però, a controllare la mimica facciale ma quella del corpo, fortunatamente, no.
Sarebbe importante, poi, che potesse assistere al colloquio una persona che conosca bene il testimone per cogliere le sfumature di un suo insolito comportamento.
Le stesse notizie raccolte andrebbero analizzate, confrontate, ponderate. Accostando e comparando, inoltre, categorie di eventi lontane fra loro ed apparentemente estranee si possono trovare costanti comuni e quindi conferme di quanto affermato dai testimoni.
Spesso, al contrario, le testimonianze sono valutate in modo approssimativo.
Bisognerebbe, inoltre, capire ed estrapolare le informazioni importanti, su cui focalizzare l’attenzione ed ampliare successivamente il ventaglio di domande, dal resto di quei dati che rappresentano un inutile “rumore di fondo”.
Un eventuale giudizio negativo da parte dell’intervistatore andrebbe formulato con prudenza perché ciò che può apparire una allucinazione, o peggio ancora una menzogna, in realtà potrebbe essere il manifestarsi di un qualcosa di straordinario in un diverso piano esistenziale, normalmente non riscontrabile.
Sarebbe, poi, utile poter ascoltare testimoni diversi per un medesimo episodio, anche se le statistiche suggeriscono che esistono tante testimonianze diverse quanti sono i testimoni.
Le dichiarazioni andrebbero registrate, per non equivocare o male interpretarne il significato, considerando, anche, come sia facile stabilire collegamenti e legami fra le cose unicamente in base ai propri convincimenti personali.
In questa ottica, ad esempio, sarebbe importante chiedere conferma al testimone della correttezza delle deduzioni estrapolate da chi intervista.
Oppure, già da anni, esistono apposite apparecchiature, come il poligrafo, che, valutando il tipo e l’intensità delle reazioni fisiologiche del testimone alle domande alle quali è sottoposto, attesterebbero la credibilità, o meno, di un testimone.
Ricapitolando, un soggetto, quindi, potrebbe partire da affermazioni sincere (che poi il loro contenuto sia reale è un altro discorso) per poi mentire.
Ma per quale motivo una persona dovrebbe raccontar menzogne?
Le ragioni possono essere tante.
Un semplice disordine mentale od una personalità disturbata. Nulla di logico, dunque, in tale comportamento.
Oppure ci troviamo di fronte a semplici mitomani in cerca di notorietà con un livello intellettivo talmente infimo da non permette loro di cogliere le conseguenze delle proprie azioni.
In altri casi, invece, il testimone si sente costretto a raccontare menzogne per dare credibilità ad un qualcosa che non è dimostrabile concretamente.
Infine, ed è il caso peggiore, vi sono coloro che mentono per ottenere precisi vantaggi economici, vendendo materiale falsificato o la propria esperienza fasulla, approfittando della poca serietà di parte degli organi di informazione desiderosa unicamente di far presa su un’opinione pubblica ansiosa di notizie sensazionali.
Oppure per fare il gioco di qualche gruppo di potere.
A questo punto è lecito chiedersi se non vi possano essere degli artifici e degli accorgimenti per cogliere una menzogna nella testimonianza.
E, per fortuna, qualcosa si può fare.
Già il comportamento non verbale di un individuo può suggerirci utili informazioni.
Chi mente, solitamente, distoglie lo sguardo dal proprio interlocutore, arrossisce, si muove non in modo rilassato e con una rigidità inconsueta nelle movenze ed il viso e la voce tradiscono una particolare emotività.
Bugiardi esperti riescono, però, a controllare la mimica facciale ma quella del corpo, fortunatamente, no.
Sarebbe importante, poi, che potesse assistere al colloquio una persona che conosca bene il testimone per cogliere le sfumature di un suo insolito comportamento.
Le stesse notizie raccolte andrebbero analizzate, confrontate, ponderate. Accostando e comparando, inoltre, categorie di eventi lontane fra loro ed apparentemente estranee si possono trovare costanti comuni e quindi conferme di quanto affermato dai testimoni.
Spesso, al contrario, le testimonianze sono valutate in modo approssimativo.
Bisognerebbe, inoltre, capire ed estrapolare le informazioni importanti, su cui focalizzare l’attenzione ed ampliare successivamente il ventaglio di domande, dal resto di quei dati che rappresentano un inutile “rumore di fondo”.
Un eventuale giudizio negativo da parte dell’intervistatore andrebbe formulato con prudenza perché ciò che può apparire una allucinazione, o peggio ancora una menzogna, in realtà potrebbe essere il manifestarsi di un qualcosa di straordinario in un diverso piano esistenziale, normalmente non riscontrabile.
Sarebbe, poi, utile poter ascoltare testimoni diversi per un medesimo episodio, anche se le statistiche suggeriscono che esistono tante testimonianze diverse quanti sono i testimoni.
Le dichiarazioni andrebbero registrate, per non equivocare o male interpretarne il significato, considerando, anche, come sia facile stabilire collegamenti e legami fra le cose unicamente in base ai propri convincimenti personali.
In questa ottica, ad esempio, sarebbe importante chiedere conferma al testimone della correttezza delle deduzioni estrapolate da chi intervista.
Oppure, già da anni, esistono apposite apparecchiature, come il poligrafo, che, valutando il tipo e l’intensità delle reazioni fisiologiche del testimone alle domande alle quali è sottoposto, attesterebbero la credibilità, o meno, di un testimone.
In altri termini, una eccessiva, per i parametri abituali del soggetto, sudorazione palmare, una pressione sanguigna particolarmente elevata ed un ritmo respiratorio affannoso indicherebbero che il soggetto mente.
Lo strumento, dunque, è in grado di misurare efficacemente lo stato emozionale dell’individuo perché viene tarato sull’individuo stesso in condizioni di tranquillità.
Il problema è, però, che determinate reazioni fisiologiche si possono legare, essendo la conseguenza di emozioni, ad altri motivi, senza dimenticare che se il soggetto è intimamente convinto della veridicità delle proprie affermazioni riesce a superare comunque il test della macchina, pur trattandosi solo della sua soggettiva “verità”.
In ogni caso, l’intervistatore, dovrebbe partire da una condizione di sostanziale di “non fiducia” nei confronti del proprio interlocutore. In questo modo avrà la lucidità necessaria per poter analizzare, sotto ogni angolatura, quanto gli viene detto.
Anche se, bisogna ammetterlo, ci si deve fare, in fondo, un poco di violenza perché la nostra vita è basata, essenzialmente, sulla fiducia, come per esempio quella verso i genitori oppure gli insegnanti.
Per questo se uno mente non siamo preparati a smascherarlo.
Se, poi, quanto ci racconta è ciò che noi vorremmo sentire ecco che, allora, il compito diventa veramente improbo e difficilmente cogliamo possibili segnali contraddittori.
Chi, ad esempio, fra coloro che da anni si dedicano con tenacia e passione allo studio delle tematiche ufologiche o, come si usa dire oggi esobiologiche, non vorrebbe avere tra le mani la “prova” inequivocabile ed insindacabile che “Loro” esistono veramente e che si sono manifestati qui da noi, sulla Terra? Chi non vorrebbe veder conclusa questa lunga attesa?
E se questa “prova” la si cominciasse ad intuire in maniera prima nebulosa poi in maniera sempre più cristallina e diafana fra le parole del proprio interlocutore?
Solo la ragione, la volontà e l’esperienza potrebbero frenare quelle nostre pulsioni che ci porterebbero a credere come vero quanto, probabilmente, ancora non è.
Ma il labirinto rischia di divenire indistricabile se la persona ritratta la propria testimonianza.
Sarà vera quest’ultima presa di posizione oppure erano genuine le prime dichiarazioni?
E come mai il soggetto si è comportato in questo modo?
In ogni caso per una equilibrata valutazione di quanto un testimone afferma bisogna cercare e considerare altri particolari.
Ad esempio è importante analizzare le condizioni atmosferiche in cui si è verificato l’episodio.
Esse sembrerebbero in grado di alterare l’equilibrio biochimico del nostro corpo, in particolare delle funzioni che regolano parti importanti del nostro cervello, come l’ipotalamo e la ghiandola pituitaria.
Ciò significa che il testimone potrebbe snaturare ed equivocare fatti ai limiti della normalità.
Interessanti sono le ricerche condotte in Canada dal dottor Michael Persinger, specialista nel campo delle neuroscienze, che ha dimostrato come i campi elettromagnetici possano alterare la normale attività del lobo temporale del cervello, con la conseguenza di creare stati allucinatori molto reali per il soggetto che li vive.
Lo strumento, dunque, è in grado di misurare efficacemente lo stato emozionale dell’individuo perché viene tarato sull’individuo stesso in condizioni di tranquillità.
Il problema è, però, che determinate reazioni fisiologiche si possono legare, essendo la conseguenza di emozioni, ad altri motivi, senza dimenticare che se il soggetto è intimamente convinto della veridicità delle proprie affermazioni riesce a superare comunque il test della macchina, pur trattandosi solo della sua soggettiva “verità”.
In ogni caso, l’intervistatore, dovrebbe partire da una condizione di sostanziale di “non fiducia” nei confronti del proprio interlocutore. In questo modo avrà la lucidità necessaria per poter analizzare, sotto ogni angolatura, quanto gli viene detto.
Anche se, bisogna ammetterlo, ci si deve fare, in fondo, un poco di violenza perché la nostra vita è basata, essenzialmente, sulla fiducia, come per esempio quella verso i genitori oppure gli insegnanti.
Per questo se uno mente non siamo preparati a smascherarlo.
Se, poi, quanto ci racconta è ciò che noi vorremmo sentire ecco che, allora, il compito diventa veramente improbo e difficilmente cogliamo possibili segnali contraddittori.
Chi, ad esempio, fra coloro che da anni si dedicano con tenacia e passione allo studio delle tematiche ufologiche o, come si usa dire oggi esobiologiche, non vorrebbe avere tra le mani la “prova” inequivocabile ed insindacabile che “Loro” esistono veramente e che si sono manifestati qui da noi, sulla Terra? Chi non vorrebbe veder conclusa questa lunga attesa?
E se questa “prova” la si cominciasse ad intuire in maniera prima nebulosa poi in maniera sempre più cristallina e diafana fra le parole del proprio interlocutore?
Solo la ragione, la volontà e l’esperienza potrebbero frenare quelle nostre pulsioni che ci porterebbero a credere come vero quanto, probabilmente, ancora non è.
Ma il labirinto rischia di divenire indistricabile se la persona ritratta la propria testimonianza.
Sarà vera quest’ultima presa di posizione oppure erano genuine le prime dichiarazioni?
E come mai il soggetto si è comportato in questo modo?
In ogni caso per una equilibrata valutazione di quanto un testimone afferma bisogna cercare e considerare altri particolari.
Ad esempio è importante analizzare le condizioni atmosferiche in cui si è verificato l’episodio.
Esse sembrerebbero in grado di alterare l’equilibrio biochimico del nostro corpo, in particolare delle funzioni che regolano parti importanti del nostro cervello, come l’ipotalamo e la ghiandola pituitaria.
Ciò significa che il testimone potrebbe snaturare ed equivocare fatti ai limiti della normalità.
Interessanti sono le ricerche condotte in Canada dal dottor Michael Persinger, specialista nel campo delle neuroscienze, che ha dimostrato come i campi elettromagnetici possano alterare la normale attività del lobo temporale del cervello, con la conseguenza di creare stati allucinatori molto reali per il soggetto che li vive.
Che valore dare, allora, per esempio, ad una esperienza vissuta in presenza di tali anomalie, come nei pressi dei tralicci di alta tensione, o ripetitori satellitari o qualsivoglia creazione artificiale in grado di produrre una particolare alterazione ambientale?
Così come l’intervistatore dovrebbe conoscere i meccanismi fisiologici che presiedono alla percezione umana.
Ad esempio non tutti sanno che esiste una tendenza soggettiva ad unire tra loro fonti luminose separate e lontane, percependole, cioè, molto ravvicinate le une con le altre.
Tale procedimento psicologico è denominato “effetto aeronave”.
La percezione, dunque, può tendere ad organizzare tali apparenze e dar loro una struttura definita, ma artificiosa, che unisce e completa quanto si osserva.
Oppure si potrebbe citare l’”effetto autocinetico” che consiste nel vedere il movimento di un punto luminoso, in realtà, immobile in un ambiente oscuro.
In altre parole conoscere questo “modus operandi” della nostra mente significa valutare più correttamente le affermazioni di un testimone.
Ma la testimonianza umana è, allora, veramente inaffidabile? C’è ben poco da salvare, dunque?
No, per fortuna il quadro non è così a tinte fosche come sembra apparire.
La memoria, non dimentichiamocelo, è stata l’arma vincente nell’evoluzione, pur nella sua fallacia e nella sua approssimazione, e lo attesta il fatto che l’Uomo è sopravvissuto e si è moltiplicato.
Essa, infatti, si è dimostrata indispensabile per il nostro benessere psichico, è diventata la base della vita di relazione e della nostra stessa cultura.
Noi abbiamo acquisito, conservato ed utilizzato le informazioni che ci sono pervenute dalla nostra esperienza per migliorare la nostra percezione del presente e cercare di anticipare il futuro e predisporci ad esso.
La memoria, in altre parole, ci ha reso consapevoli di noi stessi.
Che fare, allora, in conclusione?
Credo che occorri accrescere la nostra conoscenza su quanto, in modo diretto ed indiretto, possa essere collegato al “mistero”. Quindi studiamo la Storia, la Scienza, la Psicologia, la Biologia… insomma il Tutto, perché ogni componente della realtà è intimamente collegato con il resto. Escluderne un pezzo, vorrebbe dire essere in parte ciechi sul mondo. Ma soprattutto impariamo a contestualizzare i fatti. Un singolo evento, apparentemente inconsueto come una testimonianza, acquisisce una valenza probante solo nel momento in cui è supportato e confortato da altri elementi indipendenti. Ecco che se allora nel medesimo luogo la tradizione, la cronaca, la testimonianza, la tecnologia puntano tutti a suggerire la presenza di qualcosa di anomalo… beh… forse lì c’è per davvero…
Fonti bibliografiche, sitografiche e fotografiche:
Si può credere a un testimone? – Giuliana Mazzoni – Società editrice il Mulino
Visitatori dallo spazio – Roberto Pinotti – Armenia Editore
Breve storia degli alieni – Roberto Pinotti – Bompiani
Dischi volanti & altri ufo – Alfredo Lissoni – De Vecchi Editore
Enciclopedia La Scienza vol.10 La mente e il cervello – autori vari – Utet spa
Guardiani cosmici – Hilary Evans – Armenia editore
Ufo dossier x – autori vari – Fabbri Editori
Dizionario enciclopedico di ufologia – Franco Ossola – Siad Edizioni
La piccola grande enciclopedia degli ufo – Jenny Randles – Gruppo editoriale Armenia spa
Ritorno dal futuro – Jenny Randles – Gruppo editoriale Armenia spa
U.F.O. complessità ed anomalie di un mito – Stefania Genovese – Edizioni Segno
Ufo in Italia – Boncompagni, Conti, Lamperi, Ricci, Sani – Corrado Tedeschi Editore
Ufo base zero – Comitato Nazionale Indipendente per lo studio dei Fenomeni Aerei Anomali – Koslife edizioni
http://neuropolitics.org/defaultsep09.asp
ttp://www.bugiesmascherate.com/come-smascherare-un-bugiardo-due-errori-da-evitare/
http://fratellidiluce.it/sottopagine/Articoli%201/Eugenio%20Siragusa/Eugenio%20Siragusa%20home.html?vu76=vu76
http://www.psicozoo.it/2009/10/08/ipnosi-non-e-roba-da-ciarlatani/
http://mjjkingoflove.forumattivo.com/t745p15-processo-a-michael-jackson-2005
http://www.ceccodottipuntocom.com/2007/11/aaa-testimone-oculare-cercasi.html
http://trendy.newqui.it/la-macchina-della-verita-funziona-davvero/
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