12 agosto 2016

A RONCHI DI CREDAROLA, TRA RUDERI E CASE DI SASSI CORRE LA TRAGICA STORIA DELL’AEREO PRECIPITATO SUL MONTE


di Paolo Panni





Se Ca’ Scapini, per le leggende e le dicerie che la riguardano è ormai ampiamente considerata la “ghost town” dell’Appennino Emiliano, ad una manciata di chilometri dal borgo esiste un altro modestissimo villaggio (molto più piccolo) che può, a sua volta, essere considerato una piccola “ghost town”. 

Il luogo in questione, situato nel vasto comune di Bardi, é Ronchi di Credarola, altra borgata da decenni completamente abbandonata, con le poche case ridotte ormai a ruderi. Della borgata era tra l’altro originario Giuseppe Spinetti, che ad inizio Novecento lasciò il paese natale per il Galles dove nacque il figlio Victor, attore molto conosciuto in Gran Bretagna (recitò anche con i mitici Beatles), scomparso nel 2012. La sua vicenda storica è analoga a quella di tutte le località abbandonate dei dintorni ma è arricchita da un importante, tragico episodio storico, di cui si parla anche sul portale valcenoweb.it. Infatti nella notte tra il 24 e il 25 novembre 1943 gli abitanti di Banzuolo, Porelli (altri due borghi a due passi da Ronchi) e di Ronchi (che, all’epoca, aveva ancora diversi residenti) furono svegliati di soprassalto da un boato. 

Infatti un velivolo militare andò a schiantarsi, probabilmente a causa del temporale che quella notte infieriva sull’Appennino, contro il monte Ronchi. Dell’episodio parla ampiamente Domenico Rossi in un capitolo del suo libro <Credarola: la mia parrocchia>. L’aereo in questione era un Wellington XLM 329, appartenente alla 37esima squadriglia di bombardieri della base britannica di Djedeida (Africa Settentrionale). La squadriglia, come si può leggere anche sul sito valcenoweb, il 24 novembre alle 19.30, decollò per un’incursione notturna su Torino. L’equipaggio era formato da sei membri. Il capitano pilota, P.V. Taffe, neozelandese, il secondo pilota H.W. Fitch, canadese, il navigatore C.H. Wheasley, canadese ed i mitraglieri D.N. Crocker, J. Sheldon, W.G. Holmes, britannici. Erano tutti giovani in età compresa tra i 21 e i 28 anni. L’aereo portava un carico di 44 bombe incendiarie ed un pieno di 4000 litri di carburante. A causa delle pessime condizioni climatiche alcuni aerei ritornarono alla base, abbandonando la missione. Il Wellington, poco dopo la partenza, perdette invece il contatto radio con la base ed il resto della squadriglia, forse per un’avaria della radio trasmittente, ma nonostante questo, continuò la missione. Il rapporto canadese del giorno definisce quest’aereo scomparso per avverse condizioni climatiche o per azione bellica nemica. Dalle testimonianze oculari che lo definirono in fiamme, si potrebbe ipotizzare che venne colpito dalla contraerea e che non riuscì a scaricare su Torino il suo carico micidiale di ordigni: fatto, questo, dimostrato poi dalle numerose bombe che erano rimaste sparse sul Monte Ronchi dopo lo schianto. 

All’alba del 25 novembre da tutta la zona partirono numerosi curiosi verso la cima del monte, ma la popolazione fu profondamente turbata dallo spettacolo di tutti quei corpi straziati trovati tra i rottami. Giunsero anche i militi repubblichini con il Segretario Berni. Il dottor Liborio Schittone (ufficiale medico del comune), come si legge ancora su valcenoweb e nel libro di Domenico Rossi, propose di seppellire subito i caduti, ma il Sig. Berni decise che questi giovani, ieri nemici ed oggi esseri umani defunti, dovevano avere una dignitosa sepoltura. Dopo la messa celebrata nella chiesa di Credarola dal parroco Don Dorino Ferrari, le sei salme furono sepolte nel cimitero di Credarola. Nel dicembre del 1945 i militari canadesi addetti al recupero delle salme dei loro connazionali dispersi, giunsero a Credarola, disseppellirono le salme dei loro aviatori e le trasportarono nel cimitero militare alleato a Milano.

Sul posto della tragedia rimangono oggi i ricordi, quelli dei più anziani. “Io – racconta una anziana signora incontrata casualmente a Porelli – all’epoca non ero che una bambina. Ricordo il temporale di quella notte e il boato che ci svegliò tutti. Fu davvero una tragedia”. Lei stessa, insieme a un po’ tutti i residenti, non appena si fece giorno, si recò sul posto e lo spettacolo che si trovò di fronte fu ovviamente raccapricciante. “Ricordo – si limita a dire – che c’erano pezzi di aereo sparsi un po’ ovunque e, purtroppo, i corpi senza vita degli occupanti. Uno di loro era rimasto impigliato tra le fronde di un albero”. Si vede che la donna non vuole andare oltre, perché quando si insiste con le domande si trincera dietro al fatto che all’epoca non era che una bambina ed essendo passati tanti anni ricorda poco. Ma i suoi occhi fanno chiaramente capire che si tratta di una pagina dolorosa, che non intende rievocare troppo. Ricorda però, questo sì, che nei tempi successivi, insieme agli amici, andava sui luoghi della disgrazia a cercare i pezzi d’aereo perché quello, per loro, era chiaramente un gioco.

Chiedendo in giro, anche nei dintorni, sono invece emerse testimonianze (dirette e indirette) di persone che, frequentando in tempi diversi la zona, hanno riferito di aver visto luci e bagliori improvvisi notturni, di aver avvertito strane sensazioni aggirandosi tra i boschi e anche di aver udito, in più occasioni, lamenti. Cosa c’è di vero e cosa di fantasioso? Inutile, come sempre, cercare di dare risposta a questa domanda. Rimane quindi il fatto del luogo che sembra celare misteri e fatti inspiegabili, attorno comunque a una pagina di storia delle Terre Alte da non dimenticare.



FONTI BIBLIOGRAFICHE E SITOGRAFICHE

D.Rossi, “Credarola: la mia parrocchia”



LA FOTO DELL’AEREO E’ TRATTA DAL SITO 




LE ALTRE IMMAGINI SONO DI PROPRIETA’ DELL’AUTORE E DELL’ASSOCIAZIONE EMILIA MISTERIOSA. PER IL LORO UTILIZZO SI CHIEDE DI CITARE LA FONTE.

8 agosto 2016

MISTERI E LEGGENDE AL CASTELLO DI BOFFALORA


di Paolo Panni


Fatti di sangue, truffe, estinzioni di famiglie rimaste senza eredi, leggende rendono affascinante, e ricca di misteri, la storia dell’imponente castello di Boffalora, antico maniero che svetta su un dolce e verde colle, a due passi da Agazzano, in quel lembo di terra piacentina situato tra i torrenti Luretta e Tidone. 

Citato nei documenti più antichi come “Flatus Aurae”, sorse in origine come fortilizio con chiare funzioni militari e difensive; nel corso del tempo quindi subì numerose modifiche che lo portarono a diventare una residenza adatta ad ospitare le famiglie gentilizie che lo abitarono nel corso dei secoli. 

Quello che si può osservare oggi è un poderoso castello, dotato di cinque torri, quattro angolari e una centrale, impreziosito internamente da un ampio cortile delimitato da un loggiato settecentesco e da saloni con soffitti e cassettoni e scalinate con affreschi sulle volte. Anche se, va precisato, essendo di proprietà privata è visibile solo esternamente e, pertanto, non si è in grado di presentare immagini delle parti interne. Inoltre, negli ultimi anni, come si può notare fin da una rapida osservazione, ha subito danni e problemi alle coperture. 

A fronte anche del suo prestigio non si può quindi che auspicare che possa essere recuperato quanto prima e restituito al suo originario splendore, magari aprendolo al pubblico. In questo senso va detto che il caso del suo recupero è finito più volte al centro nientemeno che di discussioni parlamentari e l’attuale proprietario, promotore per altro di importanti e costosi interventi, ha più volte sollecitato l’intervento delle Istituzioni, anche a fronte del fatto che quello in questione è un bene di interesse pubblico. Ma, a quanto pare, ad oggi ben poco si è mosso, purtroppo. 

Tornando alla storia e alle vicende che hanno caratterizzato il castello va evidenziato un primo fatto di sangue, storicamente documentato, avvenuto il 13 luglio 1555 quando, all’interno delle sale poste al primo piano, fu assassinato il proprietario, Girardo Rustici, uomo particolarmente ricco che era entrato in possesso dell’edificio dopo che questo era appartenuto agli Arcelli (che subentrarono a capo del’immobile, per iniziativa dei Visconti, nel XV secolo). Girardo Rustici fu ucciso in seguito a una rapina. 

Nonostante il drammatico fatto di sangue il castello rimase di proprietà della famiglia Rustici ancora per diversi decenni, fino al 1634 quando passò a un Barattieri, marito di Marta Rustici. Appartenne a Gudo Barattieri (ultimo del ramo di Boffalora), e a sua moglie Elisabetta Zanardi Landi, fino al 1671 e quindi, per decisione della Camera Ducale, passò ai conti Bonvini e, da questi, al marchese Francesco Casati e a suo figlio, Bartolomeo. Quest’ultimo si macchiò di reati molto gravi al punto da perdere tutti i beni, compreso il castello, che nel 1716 divenne di proprietà del conte Federico Dal Verme che fece realizzare importanti restauri. Dieci anni più tardi ennesimo cambio di proprietà, col subentro del conte Gaetano Baldini che, a sua volta, fece realizzare importanti lavori. Tra l’altro, nel 1773, quando ancora era di proprietà della famiglia Baldini, il maniero ospitò la duchessa Maria Amalia di Borbone (come si legge ancora oggi in una iscrizione muraria), moglie di Don Ferdinando, durante una sua visita alla vicina Val Tidone. In seguito alla morte dell’ultimo dei Baldini avvenuta nel 1788, il castello passò di nuovo alla Camera Ducale e, quindi, ai nobili fratelli Tredicini che ottennero il titolo di marchesi. Successivamente la proprietà passò a Genesio Scarani, alla famiglia Radini Tedeschi, agli Anguissola Scotti (nel 1950) e alla famiglia Brichetto Orsi. Una serie quindi infinita di passaggi di proprietà, spesso segnati da fatti di sangue ma anche da truffe e da estinzioni di famiglie rimaste senza eredi. 

Da evidenziare che, a pochi passi dal castello, si trova anche una bella chiesa, a tre navate, da tempo inutilizzata, voluta nel 1726 da Gaetano Maria Baldini sulla stessa area in cui, un tempo, sorgeva un precedente oratorio dedicato a San Giuseppe. Particolarità della chiesa, che un tempo ospitava anche le reliquie di San Felice Martire, è il fatto, unico in provincia di Piacenza, di essere caratterizzata, a livello dell’abside, da due altari sovrapposti. 

Alle vicende del castello e della chiesa di Boffalora è quindi legata una leggenda che, da secoli, si tramanda in tutta la zona. E’ quella legata a una giovane del posto, di nome Silvia, orfana di padre. Gli eventi sarebbero avvenuti nel XVII secolo. La ragazza, molto bella, era promessa in sposa al figlio di un mugnaio locale ma, a causa della malattia di una zia di lei, il matrimonio fu rimandato. Silvia doveva infatti accudire la zia e, per un periodo, fu costretta di fatto a rincasare sempre a tarda ora. 

Stando sempre a quanto narra la leggenda, durante uno dei suoi rientri notturni, la ragazza si rese conto di essere inseguita da un lugubre personaggio, pallido al punto da sembrare un fantasma e, in preda al terrore, si rifugiò nella chiesa (evidentemente quella preesistente all’attuale) a pregare, nella speranza che quella “presenza” potesse andarsene. Così fu e, Silvia, per gratitudine, decise di fare voto di castità e di nubilato. Voto che, nel giro di qualche tempo, tuttavia venne meno e la ragazza, in preda al rammarico, cadde in uno strato depressivo e si ammalò. 

Nei dintorni si sparse addirittura la voce che potesse essere in preda alle cosiddette forze del male e, così, si decise di richiedere l’intervento di una vecchia strega del paese, di nome Veronica, esperta nell’uso terapeutico delle erbe. La guaritrice effettuò diversi rituali ed un giorno, per giungere alla completa liberazione dal male, invitò Silvia a indossare veli bianchi (in quanto il bianco è simbolo di purificazione) e a raggiungere la poco distante Fontana dei Quadrelli dove avrebbe dovuto raccogliere erbe che l’avrebbero fatta guarire. Silvia fece quanto le era stato indicato di fare e, proprio mentre era intenta a raccogliere le erbe, si sentì afferrare da braccia forti che la sollevarono e la portarono via. Nelle ore successive, non vedendola rincasare, la madre e il fidanzato iniziarono a cercarla, senza esito. Trovarono soltanto alcuni brandelli dei veli che indossava, impigliati nelle siepi di biancospino. Poco dopo, insieme alle persone che avevano partecipato con loro alle ricerche, videro spalancarsi una delle finestre del maniero e da lì si affacciò, in sembianze spettrali, la povera Silvia che si limitò a salutate tristemente i presenti con un cenno della mano, per poi gettarsi nel fossato del castello. Ancora oggi, secondo la leggenda, il suo spirito si aggirerebbe tra le sale e all’interno del parco del poderoso maniero. Parlando con diversi residenti della zona, non è mancato chi ha riferito di aver udito lamenti e visto strane luci, attorno al castello, anche in tempi relativamente recenti, così come c’è chi riferisce di aver ricevuto testimonianze in tal senso da familiari e conoscenti. 

Realtà o semplice fantasia? E’ questa la domanda finale che, come sempre, ci si pone, consapevoli di non poter dare alcuna risposta definitiva o, comunque, capace di “accontentare” tutti. Resta pertanto il mistero, di quello che nel tempo si sarebbe udito e visto attorno al castello: riguardante la “presenza” di Silvia o forse relativo al drammatico omicidio del 1555? 



FONTI BIBLIOGRAFICHE E SITOGRAFICHE

P.Cerri, G.Dadati, B.Tagliaferri – “Piacenza Misterios, guida ai castelli infestati, alle vicende inspiegabili e agli altri enigmi del territorio”, Edizioni Officine Gutenberg, 2015.

C.Artocchini, “Castelli Piacentini”, Edizioni Tep Piacenza, 1983

L.Cafferini, “Guida turistica Piacenza e la sua provincia””, Nuova Litoeffe, 2012.





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